Lo so. La testa è altrove. Su un altro lutto nel Mediterraneo e un vicepremier che vuole multare chi salva disperati e innocenti. Ma il pensiero va anche al calore che ti dà Papa Francesco con l’abbraccio a una famiglia minacciata perché rom. E poi il voto decisivo del 26 maggio. In mezzo a tutto questo, giovedì alla Camera è passato un altro “pezzo di ricambio” della Costituzione voluto dal governo gialloverde. Si tratta della riduzione del numero dei parlamentari. Scrivo un altro pezzo, perché il voto segue quello sul referendum propositivo, già vagliato dai deputati e ora al Senato. Lunedì prossimo sarà la volta della terza gamba del disegno, la leggina correttiva del sistema elettorale pronta a recepire la riforma.
Tutto è definitivo? Non ci giurerei. Il tabellone illuminato non ha consegnato al governo e a una maggioranza allargata un esito blindato. Le luci rosse (hanno votato contro PD, Leu, radicali e dissidenti vari), le luci verdi (i favorevoli sono stati 5Stelle, Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia), le bianche (le astensioni) hanno registrato 310 sì. Certo, non è poco. Tuttavia, per l’approvazione definitiva serve la maggioranza assoluta che alla Camera è di 316 voti, quindi ne sono mancati 6.
Le regole prevedono un intervallo, circa due mesi, prima che il Senato riesamini il testo per poi passarlo nuovamente alla Camera. Attenzione, perché avendo la maggioranza respinto anche una sola riga di correzione da pare delle opposizioni, nei prossimi passaggi non saranno più possibili cambiamenti. Conteranno solo i sì e i no. Dunque la proposta o passerà con la maggioranza assoluta lasciando a una scelta solo politica la richiesta o meno di referendum. O, ipotesi più improbabile, passerà con la maggioranza dei due terzi, condizione per diventare da subito legge dello Stato. Oppure, per divergenze nella maggioranza, finirà su un binario morto.
E’ partito un treno ad alta velocità. Le differenze tacite in Forza Italia e le assenze della Lega lasciano però l’esito finale incerto. Peseranno convenienze, contingenze, scambi, competizione, con buona pace del significato vero di una revisione costituzionale a riprova che questo governo meno dura meglio è.
E il PD e la sinistra? Abbiamo parlato con una voce sola. Prima in Commissione e poi in Aula abbiamo tentato ogni via per migliorare e dare un senso a quel trittico di riforme. La posta in gioco era e rimane evidente. La scelta è se usare l’insieme delle riforme come grimaldello per scardinare la democrazia parlamentare o, viceversa, per innovare e consolidare la democrazia rappresentativa.
Purtroppo finora il governo ha inteso le riforme come un dépliant per la campagna elettorale. Lo scalpo da esibire. In una divisione dei ruoli dove il capo leghista si scaglia contro migranti, rom o ong mentre e il “vendicatore” pentastellato aggredisce la casta e i parlamentari colpevoli di danni e sprechi. Poi, io continuo a pensare che la sfida dei duellanti preveda un vincitore. E lo penso perché chi vanta una identità né di destra né di sinistra, diventa storicamente utile a chi una ideologia la possiede, di destra, vera e ramificata in Occidente come mai era accaduto dal dopo guerra. Il sogno di una democrazia diretta purificatrice delle ingiustizie ma consegnato nelle mani di un gruppo di potere cinico è destinato ad arenarsi.
Lo scrivo con chiarezza, non eravamo e non siamo contrari alla riduzione del numero dei parlamentari. Fra l’altro lo testimoniano proposte di legge e, al di là dei loro risultati, i nostri disegni di riforma. Anche in questa occasione abbiamo avanzato soluzioni più nette come l’abolizione del Senato e l’innalzamento delle funzioni della Conferenza Stato Regioni Città, riconoscendo quell’autonomia che mai potrà dividere il paese, perché scuola e sanità pubblica sono diritti uguali dalla Lombardia alla Sicilia. Respinta questa ipotesi più coraggiosa, ci siamo battuti per una riduzione del danno. Non abbiamo usato la clava come fece l’ostruzionismo di Calderoli coi 500 mila emendamenti. I nostri erano circa 60. Ripeto, 60!. Eppure, prima in Commissione e poi in Aula, i Presidenti hanno usato ogni espediente per dichiarare inammissibili miglioramenti del tutto congruenti con la materia. Hanno negato anche solo la possibilità di discuterli e votarli. Giù con l’accetta e basta sull’estensione ai diciottenni del voto per il Senato, sulla tutela delle minoranze linguistiche come previsto dall’articolo 6 della Costituzione e dai trattati internazionali, sulla rappresentanza di specificità territoriali fino all’assurdo di un solo collegio al Senato per l’intera regione Friuli Venezia Giulia.
Noi non siamo contrari alla potatura degli alberi. Ma una buona potatura sa scegliere quali rami tagliare. Se invece la potatura si risolve nell’abbattere il tronco, allora molto banalmente la pianta muore. E temo si stia mettendo a rischio il tronco dell’equilibrio costituzionale e istituzionale. E non è poco.
Un’occasione perduta, questa volta da loro! Un’offesa alla democrazia, o più semplicemente alla saggezza. Lo scrivo con l’umiltà dei nostri errori del passato. Non ho rimosso gli scacchi trentennali né la bocciatura del 4 dicembre del 2016 che aveva chiuso una stagione e anticipato la sconfitta di un anno dopo. E’ come una lunga dannazione su cui riflettere per ricostruire l’autorevolezza delle classi dirigenti e un prestigio della democrazia insidiata dalla “democrazia illiberale” di quel premier ungherese che, assieme a Salvini, scrutava col binocolo il filo teso contro il nemico da cacciare.
A tutto questo noi stiamo reagendo. Lo facciamo scegliendo un campo largo contro una destra che scatena odio e divisione. Lo facciamo con piazze e movimenti che riscoprono il conflitto necessario per non lasciare abbandonati bisogni, diseguaglianze e persone. Sappiano che cultura e dialogo sono una forza per l’Alternativa. Sappiamo soprattutto che in Europa non siamo soli. Come si diceva un tempo, adesso e fino al 26 maggio, nessun voto vada perduto.