Quantcast
Channel: Huffington Post Italy Athena2
Viewing all 105427 articles
Browse latest View live

Ex Ilva, braccio di ferro ArcelorMittal-governo. Con lo spettro di più cig

$
0
0

La vicenda dell’ex Ilva rischia di complicarsi fino alle estreme conseguenze. La riduzione della produzione industriale e la mancanza delle tutele legali per i manager dell’azienda stanno surriscaldando un clima già abbastanza rovente. Per ora siamo nel campo delle ipotesi, tra minacce e prese di posizione. Sta di fatto che c’è stato un primo incontro tra il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli e l’amministratore delegato di ArcerolMittal Italia, Lucia Morselli, e non è stato certamente risolutivo. Ne seguiranno altri e determinante sarà anche quello con i sindacati.

Lok alla soppressione delle tutele legali per gli affittuari e i futuri proprietari del siderurgico di Taranto in attuazione delle condotte del piano Ambientale è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. E ora potrebbe diventare il pretesto per ArcerolMittal, di fronte al mancato rispetto da parte del governo degli impegni presi, per abbandonare tutto e rescindere il contratto, o per ridurre ulteriormente il numero dei lavoratori aumentando i cassintegrati. Ovviamente questo è solo il timore che aleggia nelle ultime ore. Dal ministero dello Sviluppo economico trapela che un punto di equilibrio sarà trovato, mentre l’azienda ufficialmente tace.

I sindacati sono sul piede di guerra per la situazione che si è creata. “Dall’azienda ci arrivano segnali di persone che non vogliono rischiare condanne facendo il loro lavoro, applicando la legge”, dice il segretario generale della Fim, Marco Bentivogli, parlando delle reazioni di “impiegati e quadri” di ArcelorMittal a Taranto a seguito della soppressione delle scudo penale. Per il sindacalista “il governo non si è reso conto di quello che ha fatto”. Sempre dal Mise fanno sapere che, per il momento, non c’è allo studio un provvedimento ad hoc per ripristinare le tutele legali, che una pattuglia di senatori grillini molto agguerriti aveva chiesto di stralciare e così è stato. Ritentare dunque sarebbe inutile.

Nella maggioranza c’è chi indica la manovra come veicolo per reinserire le tutele legali. Si parla anche di uno scudo light, circoscritto nel tempo. O di trovare il modo di reperire fondi per la conversione tecnologica del sito e il risanamento ambientale, stando ben attenti a non cadere sotto la mannaia degli aiuti di Stato. C’è poi l’ipotesi, lanciata dal grillino Andrea Cioffi, di aprire un tavolo istituzionale con i ministeri interessati e il territorio per fare un ‘tagliando’ all’accordo. Insomma rinegoziarlo, ma trattandosi di un accordo europeo questa strada appare impraticabile. Qualcuno si spinge fino a parlare dell’ingresso pubblico nel capitale dell’azienda.

Su tutto questo è in corso un vero e proprio scontro dentro la maggioranza. “Il Pd vuole salvare in ogni modo gli stabilimenti ex Ilva, garantendo una conversione ecologica della produzione”, sottolinea il capogruppo Andrea Marcucci una volta approvato il decreto. E per far questo e per salvare i posti di lavori, di certo serve una soluzione normativa immediata per reinserire le tutele legali, poiché ArcerolMittal, prima dell’estate quando l’ipotesi era stata solo ventilata, aveva minacciato l’addio a Taranto e ora concede non oltre dieci giorni di tempo. Il termine è dunque il 3 novembre, ultimo giorno utile per approvare il decreto.

“Deve essere chiaro al governo e a Mittal che noi abbiamo firmato un accordo che va rispettato in tutte le sue parti. Non ci sono esuberi ed è importante che il governo convochi rapidamente il tavolo”, avvisa il segretario generale Cgil Maurizio Landini, mentre il leader Uil Carmelo Barbagallo avverte: “C’è il rischio che Mittal non produca più acciaio in Italia, non possiamo dare alibi a chi vuole lasciare il nostro Paese”. Cancellare lo scudo penale è un fatto “grave” anche per l’Ugl, con il segretario generale Cisl Annamaria Furlan che sottolinea come averlo tolto “può fortemente compromettere l’accordo” siglato il 6 settembre 2018. Poiché lo stesso accordo prevedeva lo scudo penale.

Senza di questo e alla luce di una produzione che a fine anno si attesterà attorno ai 4 milioni e mezzo di tonnellate anziché 6 milioni come da contratto, l’azienda potrebbe anche decidere di ridurre nel 2020 i posti di lavoro. Per adesso ci sono 1400 cassintegrati ma il numero potrebbe salire.


Accuse di falso e manipolazione per Bio-On, bruciato un miliardo in borsa

$
0
0
bi

Da regina dell’Aim, il mercato di Borsa italiana dedicato alle piccole imprese, ai sequestri per 150 milioni della guardia di finanza. E’ uno tsunami quello che ha travolto la società di bioplastiche Bio-on, che ha visto azzerati i suoi vertici societari dall’inchiesta della Procura di Bologna che li accusa di false comunicazioni sociali e manipolazione del mercato. La vicenda rischia di trasformarsi in un nuovo caso di ‘risparmio tradito’, con oltre un miliardo di euro di capitalizzazione bruciata e i piccoli azionisti già pronti a costituirsi parte civile. La Borsa, stamattina, ha annunciato che i titoli della società bolognese “sono sospesi dalle negoziazioni”. E pensare che il 9 luglio del 2018 il titolo Bio-on era arrivato a toccare i 70 euro, il suo massimo di sempre, attribuendo alla società una capitalizzazione ‘monstre’ di 1,3 miliardi, tutta fondata sulle prospettive future.

A finire nei guai sono Marco Astorri, fondatore e presidente del cda, agli arresti domiciliari su disposizione del Gip Alberto Ziroldi, Guido Cicognani, socio e vice presidente, e Gianfranco Capodaglio, presidente del Collegio sindacale, questi ultimi due raggiunti da misure cautelari interdittive del divieto di esercitare ruoli direttivi di persone giuridiche. In tutto sono nove gli indagati. 

E’ datato 24 luglio l’inizio della ‘fine’ di Bio-on. Quel giorno il fondo americano Quintessential ha pubblicato un dossier con cui accusava l’azienda di essere “una nuova Parmalat a Bologna”, un “castello di carte” destinato “al collasso totale”. A questo punto la Procura ha cominciato a muoversi e le indagini delle fiamme gialle hanno evidenziato numerose irregolarità per quanto riguarda la formazione dei bilanci e l’informazione societaria riportata al mercato, con particolare riferimento ai ricavi e al livello di produzione dichiarati dalla società bolognese. 

La capacità produttiva di bio-polimeri dell’impianto di Castel San Pietro, infatti, veniva rappresentata come di mille tonnellate l’anno, quando in realtà dall’inizio del 2019 ad oggi si attestava sulle 19 tonnellate. 

Nel dettaglio è stato rilevato come gran parte dei ricavi iscritti nei bilanci della società dal 2015 al 2018 fossero falsi, con riguardo alle tempistiche e modalità di realizzazione, mentre parte dei ricavi generati da cessioni di licenze nei confronti di due joint venture contabilizzate nel 2018, sarebbe frutto di operazioni fittizie.
Per il Gip “le false informazioni di bilancio sono risultate strettamente funzionali ad accrescere la capitalizzazione” e, di conseguenza, rendere più appetibili sul mercato le azioni della società. Una strategia comunicativa utilizzata dal presidente Astorri, che viene definita “roboante, ammiccante, ed ottimisticamente proiettata verso obiettivi sempre più significativi”, ma che in realtà creava aspettative ingannevoli. Lo stesso fondatore, intercettato al telefono, dice: “Mi prendo il mio pezzo di responsabilità, ma non è solo colpa nostra. È colpa del sistema che ci ha indotto a fare queste comunicazioni”. Il procuratore capo di Bologna, Giuseppe Amato, ha spiegato che l’intervento degli investigatori ha evitato “che potesse esplodere con effetti ancora più devastanti una bolla economica che certamente avrebbe arrecato ancora maggiori danni”.

Per quanto riguarda i lavoratori dello stabilimento di Castel San Pietro, invece, Amato assicura che, per quanto le compete, la Procura sta facendo il possibile per salvaguardarli. Nel frattempo il sindacato per la tutela dell’investimento e del risparmio di Milano (Siti), ha chiamato a raccolta tutti gli azionisti invitandoli a costituirsi parte civile nel futuro procedimento penale.

L'allarme di Di Matteo e Ardita: "Dopo la Consulta sull'orgastolo ostativo, la mafia si può riorganizzare"

$
0
0

C’è il rischio di una “riorganizzazione di Cosa Nostra” e che riesca a raggiungere lo scopo che si era data con le stragi. “Nessun regalo alla mafia”; “nella sostanza cambierà pochissimo”. La sentenza della Consulta che apre ai permessi per gli ergastolani per mafia, oltre alla politica spacca anche la magistratura.
L’allarme più forte arriva da due consiglieri del Csm, in un recentissimo passato in prima linea nella lotta ai clan, Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita. “La sentenza della Consulta apre un varco potenzialmente pericoloso, ponendo fine all’automatismo che caratterizza l’ergastolo ostativo. Dobbiamo evitare che si concretizzi uno degli obiettivi principali che la mafia stragista intendeva raggiungere con gli attentati degli anni ’92-’94″, avverte Di Matteo, che si augura che “la politica sappia prontamente reagire e approvi le modifiche normative necessarie ad evitare che le porte del carcere si aprano indiscriminatamente ai mafiosi e ai terroristi condannati all’ergastolo”.


Ardita, oggi presidente della Commissione penale del Csm sull’esecuzione penale e la sorveglianza, vede nella decisione il rischio di gravi conseguenze, a partire dalla “pressione” che le organizzazioni mafiose potrebbero esercitare sui magistrati di sorveglianza. Anche se, spiega, la sentenza “non rappresenta di per sé il superamento di quel modello”, vale a dire l’assoluta chiusura nella concessione dei benefici ai mafiosi che non collaborano, ma “rimette al legislatore il compito di modulare in concreto l’ampiezza di questa innovazione”. Ecco perché il Parlamento deve “mantenere fermo il sistema della prevenzione antimafia” e “impedire che quella che dovrebbe essere una eccezione diventi una regola, che va a beneficio di personaggi capaci di riorganizzare Cosa nostra e non rivolta a chi sta fuori dalla organizzazione”.


Di parere opposto è Armando Spataro, anche lui storico magistrato oggi in pensione che ha contrastato con importanti indagini le mafie e il terrorismo. Quella della Consulta, dice l’ex capo della procura di Torino e ex procuratore aggiunto a Milano, è una sentenza “assolutamente condivisibile, che non introduce alcun automatismo favorevole ai mafiosi condannati all’ergastolo, rimettendo alla magistratura di Sorveglianza l’accertamento della dissociazione da logiche mafiose di simili detenuti”. Ed inoltre, elemento di non poco conto, “rispetta i “principi fondamentali sottesi alla finalità di recupero del detenuto”. Per questo, dice Spataro, “spero non vi siano da registrare le solite reazioni di chi parla di un regalo alla mafia, il che sarebbe sbagliato pensando a chi la mafia l’ha contrastata sapendo che anche il mafioso può cambiare”.
In una posizione intermedia c’è Alfonso Sabella, in passato nel pool antimafia a Palermo. La sentenza, dice, “nella sostanza cambierà pochissimo: si tratta di una decisione “equilibrata e intelligente” perché “lascia uno spazio per mantenere inalterato l’istituto” e allo stesso tempo “dà una chance all’ergastolano”.


Ma il punto è un altro, secondo Sabella: serve un intervento del Parlamento perché è necessaria una “norma salvamagistrati”. In sostanza, se si dà ad un solo magistrato la discrezionalità di valutare se è a favore o contro un permesso, lo si espone troppo. Dunque serve una “competenza collegiale” per non “personalizzare la decisione” e “diluire le responsabilità tra i magistrati e quindi proteggerli”.

Giuseppe Conte, avvocato in difesa

$
0
0

“Per me il caso è chiuso qui”. Giuseppe Conte è appena risalito nel suo studio dopo la conferenza stampa convocata a Palazzo Chigi. Oltre due ore al Copasir, poi il chiarimento davanti ai cittadini ritenuto “doveroso” dal presidente del Consiglio. Un’informativa ritenuta esaustiva in tutti i suoi aspetti davanti l’organo di controllo parlamentare dell’intelligence, una spiegazione dei punti ritenuti più nebulosi dall’opinione pubblica. “Il caso Barr è stata una bolla creata da ricostruzioni parziali ed errate”. Già, perché Conte mai una volta usa il termine Russiagate, parla ossessivamente della vicenda riferendola al nome del ministro della Giustizia Usa. “L’unico Russiagate è quello che coinvolge Matteo Salvini – ha ripetuto in questi giorni ai suoi – E non è mai stato chiarito. La vicenda che riguarda Barr e la nostra intelligence ha seguito tutti i protocolli e la legge, non ha nessun lato oscuro”.

Eccola la contromossa del premier, che si vuole scrollare di dosso una volta per tutte le accuse di una quantomeno sbarazzina gestione dei servizi segreti italiani, cacciare via i sospetti che si sia agevolato un’operazione politica ambigua con eventuali contropartite, e scaricare la patata bollente a quello che ormai non nasconde più di ritenere “l’avversario”. “Dopotutto il presidente lo aveva detto – spiega un suo collaboratore – avrebbe dato prima la risposta nelle sedi istituzionali, quindi al paese.

È puntiglioso, il capo del governo, quasi facesse una requisitoria (a suo avviso finale) in sua stessa difesa. “È falso che la richiesta di informazioni sia stata fatta in piena crisi di governo, ma risale a giugno. È falso che il tweet di Donald Trump di stima nei miei confronti sia in qualche modo legato a questa vicenda”. Si toglie subito i sassolini dalle scarpe, mette le cose in chiaro. Subito prima di spiegare che nessuna richiesta diretta sia mai arrivata sulla sua scrivania, che non ha “mai parlato direttamente con il ministro Usa”, ma che sono stati usati i normali canali diplomatici. Da Barr, che è sì ministro del gabinetto repubblicano, “ma anche capo dell’Fbi, e dunque del controspionaggio”. Dunque una richiesta del tutto normale, secondo il premier, volta a verificare l’operato degli agenti americani operanti in Italia tra la primavera e l’estate del 2016, e un eventuale ruolo del professor Mifsud nell’architettare il Russiagate che ha investito The Donald.

“Le riunioni sono servite a chiarire, alla luce delle verifiche fatte, che la nostra intelligence è stata del tutto estranea alla vicenda. Estraneità che a sua volta è stata riconosciuta anche degli americani”. Così spiega conte i due incontri tra le controparti. Il primo, il 15 agosto, con il solo capo del Dis per “definire il perimetro” della collaborazione. Il secondo, il 27 settembre, anche con i responsabili di Aise e Aisi, per lo scambio di informazioni. Da cui la nostra intelligence esce pulita. Spiega una fonte di Palazzo Chigi: “È normale che la richiesta di acquisire elementi per capire eventuali opacità nell’agire degli agenti statunitensi di stanza in Italia richiedesse implicitamente una verifica anche sull’operato della nostra intelligence, verifica che il presidente ha autorizzato e che ha dato esito negativo”.

Conte spiega che non ha condiviso le informazioni con altri ministri “perché avrei violato la legge”. E che il Copasir, come è consueto, deve essere informato solo in una fase successiva affinché possa fare le verifiche del caso. “Opero sempre nel rispetto della legge – ha spiegato - Chi fa ricostruzioni come quelle che ho letto non conosce la legge. Svolgo il mio ruolo ruolo in difesa di repubblica e istituzioni democratiche”. Per questo Conte si è assunto “tutte le responsabilità”: “Se tornassi indietro non potrei fare diversamente”.

Ecco che arrivano le domande. L’avvocato dismette i panni istituzionali, abbassa la testa e carica: “Salvini? Io ho chiarito, lui non ha avvertito e non avverte la responsabilità di chiarire i fatti che lo cinvolgono. Io sono stato in forte imbarazzo, ho dovuto parlare al posto suo, senza che abbia mai risposto alla mia richiesta di informazioni. Forse doveva chiarire che ci faceva insieme a Savoini con le massime autorità russe”. Operazione distrazione o meno, Conte ha spiegato che è convinto di aver messo una volta per tutte una pietra sopra gli spifferi che esalavano dalla fossa del caso Barr. Almeno fin quando il rapporto dell’ormai famigerato ministro verrà pubblicato, e si avrà conferma di quanto ascoltato oggi. Oppure no.

Taglio del cuneo sotto i 35mila euro e carta bimbi da 400 euro: arriva lo scheletro della manovra

$
0
0
CHIGI PALACE, ROME, ITALY - 2019/09/30: The Minister of Economy and Finance, Roberto Gualtieri, at the end of the Council of Ministers, speaks to a press conference about the note updating the Document of Economy and Finance (Def). (Photo by Cosimo Martemucci/SOPA Images/LightRocket via Getty Images)

La rivalutazione delle pensioni per 2 milioni e mezzo di persone, il fondo per le famiglie, la sugar e la plastic tax, e poi le tasse sulle sigarette, l’aumento della cedolare secca e l’abolizione dei superticket. Lo scheletro della manovra è contenuto in una bozza di sei pagine, che ha fatto da canovaccio per la lettera di risposta del governo all’Ue. Molte delle misure fanno parte da tempo del pacchetto, altre sono nuove, di altre sono stati definiti i dettagli. Intanto, i soldi: quanti sono e da dove arrivano.

“Vengono previsti 30 miliardi di maggiori spese - viene spiegato - mentre 15 sono maggiori entrate. Tra queste ultime, 6,5 miliardi provengono dalle misure individuate nel Decreto Fiscale, mentre 8,5 miliardi provengono da maggiori entrate individuate con le misure del Disegno di Legge di Bilancio. Il resto è coperto in deficit, con 14,4 miliardi di euro”.

Scendendo nello specifico, dalle microtasse si stima un recupero di circa 5 miliardi. Fra le misure di maggiore impatto ci sono quelle per gli anziani e le famiglie. Per i primi c’è il ripristino della rivalutazione delle pensioni tra i 1.500 e i 2.000 euro lordi. “Per la famiglia - viene spiegato - la manovra prevede un fondo da 2 miliardi nel prossimo triennio. Dal 2020 le risorse degli attuali bonus (nascita, bebè, voucher asili nido) saranno riordinate in un unico fondo che avrà una dote aggiuntiva di 500 milioni. Sarà un’apposita ‘carta bimbi’ da 400 euro al mese a permettere alle famiglie di coprire le rette per gli asili nido o azzerarle per i nuclei a basso reddito”. Il taglio del cuneo fiscale riguarderà sia i 4,5 milioni di lavoratori con redditi lordi tra i 26.600 e i 35.000 mila euro, finora esclusi dal bonus Renzi, sia i 9,4 milioni di lavoratori con redditi da 8 mila a 26.6000 euro, che percepiscono già il bonus Renzi. Si abbassano, però, le detrazioni Irpef al 19% per i contribuenti: la sforbiciata parte dai redditi oltre 120 mila euro l’anno con il graduale azzeramento a quota 240mila euro. Dallo schema prende forma la tassa sul fumo, che riguarda sia le sigarette elettroniche sia quelle tradizionali: 160 milioni arriveranno da un aumento di imposte su liquidi, bruciatori, trinciato e sigaretti e oltre 45 dalle sigarette.

Si confermano la tassa sugli imballaggi di plastica, un euro per chilogrammo, che partirà dal primo giugno 2020, e l’aumento della cedolare che al 12,5% dal 10%. La giornata è stata caratterizzata anche dal ‘ritorno’ del bonus cultura per i diciottenni, in scadenza a fine 2019. Il governo è intenzionato a rinnovarlo, ma l’investimento dovrebbe calare da 240 milioni a 160 milioni. Malgrado la minore disponibilità, Pd e Iv chiedono di fare in modo che la cifra a disposizione dei neo maggiorenni resti di 500 euro ma il rischio è che il bonus sia quasi dimezzato. Per riuscirci, puntano “sul fatto che non tutti i diciottenni lo hanno usato nel passato”. Infine, per il rinnovo dei contratti pubblici “il governo aggiungerà 225 milioni per il 2020 e 1,4 miliardi a regime dal 2021, che andranno ad aggiungersi agli 1,4 miliardi stanziati precedentemente per il 2020 e agli 1,75 stanziati precedentemente per il 2021. Si tratta in totale di 3,1 miliardi stanziati a regime per i rinnovi”.

Conte, fuga dalla realtà

$
0
0
Ansa

Nel grande gioco di parole dell’avvocato Conte c’è solo un’affermazione categorica, e per nulla banale. E cioè che “alla luce delle verifiche fatte, la nostra intelligence è estranea a questa vicenda, e questa estraneità ci è stata riconosciuta dagli interlocutori Usa”. Affermazione che, da parte italiana, mira a far scendere i titoli di coda sul film e a chiudere il teorema degli americani, impegnati a cercare le prove che l’inchiesta Mueller sui rapporti di Trump con i russi sia stata un’invenzione dei democratici Usa. L’idea cioè che l’intelligence di alcuni paesi europei, con la complicità dei governi democratici dell’epoca, abbia aiutato nell’attacco alla democrazia in America.

 Parole, quelle del premier, certamente rassicuranti, ma comunque impegnative nella misura in cui negano che ci possa essere fondamento nel sospetto degli americani. E che fanno franare un pezzo della loro ipotesi, alla base della quale c’era proprio la richiesta degli incontri con i servizi italiani. Incontri su cui il ministro Barr ha evidentemente stilato dei report che, inevitabilmente, rappresentano la “prova del nove” della versione del nostro premier e della sua certezza che, anche per loro, il caso è chiuso e non bisognoso di ulteriori verifiche, su cui, evidentemente, finora c’è stata una generosa disponibilità.

 Ma nell’affermazione categorica c’è la vera notizia, che magari il premier avrà spiegato al Copasir con maggiori dettagli e la conferma di tutta l’anomalia dell’operazione, fatta di irritualità sottolineate da una rara confusione verbale su questioni così delicate. E cioè che c’è stata una “verifica” sull’operato della nostra intelligence, ai tempi in cui la responsabilità politica era dei governi Renzi e Gentiloni verifica condotta adesso che la responsabilità è di Conte, a cavallo tra i due governi da lui presieduti: quello con la Lega e quello col Pd che, all’epoca dei fatti indagati, era appunto al governo. E questo non su una questione di interesse nazionale italiano, ma su un terreno tutto interno alla politica americana proprio nel momento in cui su Trump pende una richiesta di impeachment, a prescindere da come finirà.

 La grande fuga dalla realtà posta in essere con grande leggerezza è in una conferenza stampa confusa, forse artatamente confusa, dove il premier con estremo candore conferma tutte le “irritualità” del suo operato. Dice Conte che non ha mai incontrato Barr né ci ha mai parlato direttamente, così come non ha mai parlato direttamente dell’ affaire con Trump. E rivela che gli americani hanno avanzato la richiesta di un incontro con i servizi per via diplomatica, il che lascia supporre che di questa richiesta ci sia una traccia scritta e formale, della quale si presume che il premier abbia riferito al Copasir, sede vincolata dal vincolo della segretezza.

 Lo dice con l’aria dell’avvocato che ha trovato le prove che smontano le accuse che gli ha rivolto la stampa, vissuta come fastidioso tribunale che non comprende quanta normalità e quanta trasparenza ci sarebbe stata nella sua condotta. Quando invece ciò che gli è stato contestato, in quanto anomalo, è proprio ciò che il premier invece conferma. Non un suo eventuale incontro con Barr, circostanza che sarebbe stata dentro un sistema di fisiologiche relazioni tra due paesi amici. Il punto, confermato, è che ha autorizzato l’incontro tra una funzione “politica” e apparati di natura “tecnica” preposti alla sicurezza nazionale, omologando due livelli che normalmente restano distinti. Né è convincente la giustificazione addotta, e cioè che Barr è sostanzialmente il capo dell’Fbi, che peraltro non è ascrivibile tra le diciassette agenzie di intelligence americane, perché Barr è, diciamo così, l’autorità politica dell’Fbi, così come Conte è l’autorità politica responsabile dei servizi italiani.

E di assolutamente anomalo c’è l’oggetto di questi incontri. Che il premier illustra con notevoli capacità acrobatiche. Prima spiega che la richiesta degli americani era di verificare l’operato della loro intelligence, il che rappresenta un’altra singolarità, in questa storia piena di innovazioni: un grande paese che chiede aiuto a un alleato per “indagare” sull’adeguatezza dei propri 007. Poi Conte afferma che il comportamento dei nostri servizi è stato corretto, ammettendo dunque che questo era l’oggetto della richiesta, sia pur “implicitamente” perché dettato dalla necessità.

 Insomma, comunque la si giri, il dato è che un livello politico americano arriva in Italia a chiedere conto dell’operato dei nostri servizi per ragioni che attengono alla politica interna americana, vengono autorizzati incontri che travalicano i compiti istituzionali della nostra intelligence e tutto questo è trattato come se fosse normale. Anzi, come se fosse sufficiente a chiudere il caso conferendo al premier anche l’immagine e la rettitudine del novello Savonarola che, forte della sua presunta trasparenza, si scaglia contro Salvini, ancora in fuga dalla vicenda russa. Fuga che è vera ma anche nel paese delle facili rimozioni viene alla mente, a proposito di Savonarola che, così come è in fuga oggi, il leader della Lega fuggiva anche allora, ai tempi in cui era ministro dell’Interno del Conte 1. E che il Conte 1, diversamente dal Conte 2, allora non prese alcuna iniziativa, né tantomeno su questo fece saltare il governo, anzi andò in Parlamento a metterci la faccia, anche se gli elementi per una grande denuncia c’erano tutti. Perché poi, ognuno fugge a modo suo. In fondo, se non ci fosse stato nulla di strano e di anomalo, il premier questa storia che lo riguarda l’avrebbe potuta spiegare appena uscita la notizia, senza attendere di essere “costretto” dall’audizione del Copasir.

 

 

Bimba di pochi mesi muore con la testa incastrata tra il letto e un mobile

$
0
0
Italian Carabinieri Forces sign on a door of police van

I carabinieri indagano sulla morte di una bambina di pochi mesi. La piccola, di origini marocchine, era a casa della nonna, che secondo una prima ricostruzione l’avrebbe lasciata sul letto per recarsi in bagno. Al suo ritorno, l’ha trovata con la testa incastrata tra il letto e un mobile, già priva di sensi. L’allarme al 118 è stato immediato, ma la corsa in ospedale è stata inutile: è morta durante il trasferimento.

Renzi: "Non voglio staccare la spina al governo"

$
0
0
Former Italian Prime Minister Matteo Renzi reacts during a session of the upper house of parliament over the ongoing government crisis, in Rome, Italy August 20, 2019. REUTERS/Yara Nardi

“Abbiamo fatto questo governo due mesi fa per evitare l’uscita dell’Italia dall’euro, che senso ha farlo cadere oggi? La legislatura durerà fino al 2023 e questo Parlamento eleggerà il successore di Mattarella. Senza di noi questo governo non sarebbe neppure nato. E il governo deve lavorare, non inseguire fantasmi. Poi se qualcuno vuole andare a votare, lo dica apertamente. Io non voglio”. In una lunga intervista al Corriere della sera Matteo Renzi rassicura Conte e rivendica sulla manovra l’azione degli esponenti di Italia Viva

“Se uno fa proposte sulla legge di Bilancio fa politica, non ricatti: le idee non sono ultimatum - sostiene Renzi -. C’è il blocco dell’aumento dell’Iva. Dobbiamo dire grazie alla caparbietà di Teresa Bellanova e Gigi Marattin se abbiamo raggiunto il risultato. Considero positive le misure su famiglia, sanità, e il ritorno alla nostra politica di iperammortamenti. I tre miliardi sul cuneo fiscale sono un segnale sui salari. Per cambiare le cose davvero servono 20 miliardi sul cuneo fiscale come facemmo noi cinque anni fa: tre miliardi sono solo un piccolo acconto. Meglio di nulla, comunque″.

Il leader di Italia viva non è d’accordo sullo sventolio di manette riguardo agli evasori

 

“Il populismo semplifica ogni concetto. Il carcere per gli evasori c’è già, previsto da anni - afferma Renzi-. E anche la custodia cautelare per reati minimi. Qui hanno solo alzato le soglie. La vera sfida è rovesciare il ragionamento e introdurre un sistema premiale, una patente a punti fiscale. Se paghi e fai bene per anni, quando commetti un errore veniale, ti sanziono “togliendoti qualche punto”. Chi sbaglia paga. Ma bisogna anche graduare l’errore e usare il buon senso. Con noi gli incassi dalla lotta all’evasione sono aumentati in modo vertiginoso. Quanto alle misure preventive e cautelari invito sempre alla prudenza: è di ieri la notizia che Mafia capitale per la Cassazione non è mai esistita. Eppure quanto ha influito quella indagine sulla vita del Paese? Abituiamoci ad aspettare le sentenze della Cassazione: lo prevede la Costituzione, facciamolo”.

Esclude qualsiasi alleanza strutturale con M5s e conferma che punta a costruire con il suo partito “una casa riformista che rifiuti gli estremismi” e non considera l’Umbria vitale per il governo: “L’Umbria è una regione bellissima. Ma appunto, una regione. Per le Politiche Salvini dovrà aspettare tre anni e mezzo. Se il mio omonimo non sa come ingannare il tempo gli suggerisco di passare in tribunale e denunciare il suo ex amico Savoini, così chiariremo finalmente il Russiagate”. Quanto agli obiettivi, Renzi sembra molto ottimista:


“La sfida è passare dal partito personale al partito delle persone. Se Italia viva resterà il partito di Renzi potrà puntare nei prossimi mesi a raggiungere il 10%. Ma se Italia viva sarà uno spazio liberale, aperto, generazionale composto da persone con storie diverse, questa casa può diventare la vera novità della politica italiana”.

 

 


"Trump sta preparando il ritiro dal trattato di Parigi sul clima", la rivelazione del New York Times

$
0
0

Donald Trump sta preparando il ritiro degli Usa dal Trattato di Parigi sul clima. Lo rivela il “New York Times”, che cita tre fonti vicine al dossier, secondo cui sarebbero state avviate le procedure che richiederanno un anno per il completamento. Ieri, 23 ottobre, nel corso di un evento a Pittsburgh, lo stesso presidente americano aveva riconfermato per l’ennesima volta l’intenzione di ritirarsi “da un accordo terribile, che è un disastro totale per il nostro Paese”.

Un portavoce del dipartimento di Stato contattato dal giornale non ha detto se alle Nazioni Unite è stata inviata una prima notifica dell’avvio del processo, ma in una nota ha ribadito che “la posizione degli Stati Uniti sull’accordo di Parigi non è cambiata: gli Stati Uniti vogliono ritirarsi”.

In base alle regole del Trattato, il 4 novembre è la prima data utile entro la quale l’amministrazione Trump può inviare una notifica scritta all’Onu per comunicare l’avvio del processo di ritiro.

Dove dorme Gina?

$
0
0

Gina si chiamava. Io avevo 23 anni e finivo l’università facendo il lavapiatti per cinque pranzi e una cena in un bistrot dietro al Parlamento. Città: Roma. Era una senzadimora romana - una più rara donna rispetto a quel che dicono le statistiche - che si muoveva in quel rettangolo parlamentare.

Forse se la ricordano i deputati della Prima e forse anche quelli della “prima” Seconda Repubblica e mi fa sorridere che abbia attraversato un momento apparentemente così speranzoso della nostra vita italiana.

Da una recente indagine della Feantsa, la federazione europea degli organismi che lavorano con gli homeless, e dalla Fondation Abbé Pierre sono 700 mila i senzadimora in tutta Europa. In Francia uno di loro ogni giorno ci lascia.

Immagino anche da noi il livello di mortalità sia alto. Vicino ai luoghi che frequento, per dire, qualche tempo fa ha perso la vita, in un investimento, Nereo, un pacioso signore avido lettore che si era ricavato una casa nel verde del Muro Torto.

Ma è uno: ognuno di noi ha un senzadimora in “adozione”. Se sommassimo le loro vite avremmo una piccola città e forse tanti necrologi di cui, isolati, non abbiamo numeri precisi.

L’ultima indagine (ISTAT, con Caritas) che ho trovato è del 2015 con dati 2014 e parlava di 50 mila 724 le persone (ma sono quelle che hanno utilizzato servizi mensa quindi il numero si stima maggiore), dato in crescita che stimiamo ancora in salita stante la perdurante crisi. Di certo “aumentano, le quote di chi lo è da più di due anni (dal 27,4% al 41,1%) e di chi lo è da oltre 4 anni (dal 16% sale al 21,4%)” diceva.

Gina, dicevo, era una vecchina deliziosa e io forse un giovane pieno di curiosità - spero di esserlo ancora - e aperto alla novità e alla diversità - provo a esserlo ancora in barba a quel modo di dire che sentii all’università al tempo “chi non è un sognatore a vent’anni è un arido, chi lo è ancora dopo i trenta è uno stupido”.

Gina girava con una busta di soldi (come avrà attraversato il passaggio lire/euro?) e si diceva che fosse ricca e stesse per strada solo per una scelta. Non so se fosse vero: sui senzadimora aleggia sempre una mitopoiesi un po’ surreale. Sono ricchi, sono folli, sono blasonati ma... e non si sa se il peggio venga prima o dopo quel ma.

Dei senzadimora non si riesce mai a capire neppure i parametri essenziali: età, provenienza - ancor prima di quelli sociali. E forse non si riesce perché non sono davvero quelli più essenziali. Forse il loro insegnamento è proprio in questo invito a rivedere il setting dell’essenzialità. Serve tanta compassione e tanta voglia di riconsiderare se stessi fuori dalle frasi fatte, tipo quella che mi veniva somministrata tra i banchi universitari, in forma di insegnamenti monolitici. 

Forse Gina non è più viva - i capelli erano grigi già nell’era pentapartitica, la pelle un po’ segnata dall’età già allora - o forse ha un numero di anni tutto sommato sorprendente per quell’aspetto che suggeriva allora e vive serenamente in qualche casa-famiglia.

In ogni caso lei o un’altra persona che potremmo incontrare per strada stamattina o stasera merita un’attenzione non casuale, e la merita chi cerca di sostenerli, la Caritas e le miriadi di onlus, associazioni, cooperative sociali come Binario 95, a Roma, che ho avuto la fortuna di incontrare, conoscere e apprezzare a Roma, vicino alla Stazione Termini.

Ascoltando le storie di chi trova rifugio lì si capisce che essere senzadimora non è un’onta o una condizione genetica. Un insieme, piuttosto, di sfortune cristallizzate nel tempo per le quali non ci dovremmo sentire superiori (e forse immuni) slegate da brillantezza, intelligenza e capacità di vario tipo, intellettuali e non.

Quando l'alcol diventa la tua casa

$
0
0

Assistiamo sempre più a morti di giovani che mixano alcol e droga. Accostiamoci al problema, perché sta diventando sempre più grave e contagioso. Io voglio raccontare la storia di un mio amico che non sapeva neppure il mio nome.

Il mio amico, quello che si trovava sempre al bar dalle 7 del mattino, non tornava a casa fino a quando non arrivava sera. La sua casa era diventata un bancone vicino alla finestra del nostro bar. Una finestra che rifletteva la corrosione di tutte le vite messe in gioco da destini che non lasciano traccia.

Il mio amico aveva più di 70 anni, ma in effetti non avevano mai saputo dargli un’età. Avrebbe potuto avere tutte le età del ricordo. Sembrava che il tempo insieme a lui avesse un accordo sancito da un viso con la stessa espressione. La stessa tristezza, il rammarico del fallimento.

Lo guardavano, e vedevano rughe che gli appartenevano ancor prima di conoscere la vita. Lui aveva una bicicletta, la patente gli era stata tolta dopo che la polizia l’aveva fermato mentre la macchina non rispondeva più ai suoi comandi. Si stava addormentando, mentre tutto l’alcol che aveva ingerito gli stava facendo vivere i sogni che avrebbe voluto vivere.

Il mio amico non parlava mai del suo passato: forse lo voleva addormentare, lo voleva far sopire come stava facendo finire la sua esistenza. I suoi fantasmi li voleva imprigionare in uno scrigno, e le chiavi le poteva trovare solo nella sua amarezza.

Il mio amico era solo. La moglie lo aveva lasciato, i suoi figli non li vedeva da anni, viveva in un alloggio del Comune con una pensione che gli bastava solo per mangiare cose congelate e vino in scatola. Ultimamente aveva dovuto smettere di inventarsi la sua esistenza. L’alcol l’aveva devastato. Ma non solo quello. Lo aveva devastato la solitudine, il fallimento, il rancore, l’inutilità del suo essere. Lo aveva devastato la vecchiaia vissuta in una piccola gabbia dove dei conoscenti gli avevano messo un televisore che trasmetteva immagini e che lui guardava senza capirne il senso.

Il mio amico era alcolizzato come tanti in queste città levigate dalla nebbia e dal freddo acuto e che quando arriva il caldo ti toglie il respiro. Mi aveva detto che il medico dopo avergli fatto esami e la TAC, gli aveva emesso la condanna a morte.

E lui ha smesso di bere. Non sapeva lui neanche perché. Forse per non morire dal dolore, forse per rassegnarsi a sentire fino in fondo il suo dispiacere, forse perché pensava che se lo meritasse, forse perché lo avevano abbandonato come i cani randagi.  

Forse perché la disperazione gli modellava il suo vestito sempre sporco e puzzolente. Io gli parlavo sempre, ma lui da quando non beveva sembrava assente. Lo ritrovavo ogni giorno al bar. Con uomini che alle 8 di mattina già sorseggiavano il primo bicchiere di vino rosso, ma lo prendevano in giro. Era diventato oggetto di scherno proprio da chi si stava incamminando nel suo stesso sentiero.

Gli dicevano: “Eccolo qui il beone”, “Eccolo qui quello che ha più vino in corpo che ossigeno”. Lui non diceva nulla, era abituato a non essere più un uomo, era abituato a non avere più dignità, era abituato a appendersi nel ricordo del suo viso incorniciato da capelli bruni. 

Ma lui preferiva al silenzio della sua casa, la visibilità di un uomo perdente anche se doveva subire derisioni e sberleffi. Mi hanno detto che non beve più, ma ogni giorno lo continua a consumare in un bar con le tavole di legno e bicchieri che trasudano il vuoto. La sua casa è quel caffè dove lo offendono, dove nessuno ha stima di lui. La stanza della sua vita. Dove nessuno lo accoglie ma lo umiliano, dove nessuno gli rivolge una parola, dove nessuno si accorge che è vivo. Nessuno.

Il mio amico che stava al bar dalle 7 del mattino finché non tramontava il sole, un giorno mi ha detto: “Per la vita che faccio, se vivo un anno in più o un anno in meno non mi interessa nulla. Il bello dell’alcol è che per due ore, i tuoi problemi sono degli altri”.

L’ho abbracciato, ma lui non ha sentito le mie mani.

La pena non deve essere punizione, ci voleva la Cedu?

$
0
0

A due settimane di distanza dalla sentenza della Grande Chambre della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che aveva definito inumana e degradante una pena all’ergastolo senza prospettive e che di fatto viola l’articolo 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti umani, ora anche la Corte Costituzionale si è pronunciata contro l’ergastolo ostativo.

Dunque ora sappiamo (ma in realtà già si sapeva) che sempre e comunque il carcere non deve essere punizione fine a se stessa e che la pena sempre e comunque deve tendere alla rieducazione del condannato.

Non solo, ora sappiamo che per trent’anni l’articolo 4 bis (icona dell’emergenza mafiosa) è stato applicato differenziando l’esecutività della pena e perciò violando la Costituzione.

Per chiarire è bene anche precisare che  la sentenza della Corte Costituzionale non libera nessuno, semplicemente dichiara che spetta al giudice, che valuta caso per caso, dopo aver letto le relazioni delle autorità penitenziarie, se il condannato all’ergastolo sia ancora pericoloso socialmente o se al contrario, grazie a un provato percorso rieducativo, possa godere dei permessi premio.

Affermazioni, ma soprattutto titoli o articoli del tipo “possibili permessi premio anche a mafiosi e terroristi”, sono pura ideologia:  li ritengo scorretti dal punto di vista deontologico perché “orientano” l’istinto e non la ragione, provocano ribellioni a una giusta sentenza, causano ansia e insicurezza senza reale motivo, presentano la realtà dei fatti in modo distorto.

"Con il carcere per gli evasori la macchina della giustizia rischia il caos"

$
0
0
Eugenio Albamonte

“L’Apocalisse dal 1° gennaio 2020 non ci sarà per il semplice fatto che il regime della prescrizione sarà applicabile ai reati che saranno commessi a partire da quella data. È evidente che gli effetti si produrranno dopo”. Eugenio Albamonte, magistrato a Roma, segretario di Area democratica per la giustizia - l’associazione che riunisce i magistrati progressisti - risponde così alle parole pronunciate davanti alla commissione Giustizia della Camera dal ministro della Guardasigilli Alfonso Bonafede. L’inquietudine dei magistrati sul tema riguarda le ripercussioni che la riforma sulla prescrizione - così come l’introduzione del carcere per i grandi evasori - potrà avere sulla macchina della giustizia italiana. A meno che il legislatore non intervenga subito con dei correttivi.

Dottor Albamonte, nel mondo giuridico è in corso un importante dibattito sullo stop alla prescrizione. Qual è il timore dei magistrati?

Le conseguenze delle riforme - purtroppo soprattutto di quelle fatte male - sono destinate a durare a lungo. Il rischio che corriamo, se non si interviene subito, è che tra tre o quattro anni ci ritroveremo di fronte a problemi gravi per il funzionamento del sistema della giustizia.

Quali, ad esempio?

Senza correttivi, ci sarà un ingolfamento totale dei processi. Soprattutto in alcuni ‘colli di bottiglia’ del procedimento, come il passaggio tra il giudizio di primo grado e la Corte d’Appello. In quel frangente ad oggi confluiscono, come in una specie di area di stoccaggio, centinaia, migliaia di procedimenti che poi diventano difficili da smaltire. Senza cambiamenti, quell’imbuto è destinato a diventare una strozzatura di qui a qualche anno. O si agisce subito, oppure una volta che la norma sarà entrata in vigore sarà difficile arginarne le conseguenze. 

E in che modo si potrebbe evitare che si creino questi imbuti, o meglio che se ne aggravino le condizioni?

Il pacchetto che Bonafede aveva portato in Consiglio dei ministri nel corso del governo precedente prevedeva misure troppo blande, che non andavano ad arginare quei rischi a cui facevo riferimento prima.

Cosa mancava in quel disegno?

Una depenalizzazione ulteriore, ad esempio. Uno dei problemi del processo penale è anche l’enorme carico di reati. Non tutti questi corrispondono a situazioni effettivamente meritevoli della sanzione penale. È la tendenza del legislatore, del resto: quando c’è un problema, un allarme sociale, si risponde con una norma penale. E questo stesso ragionamento è stato fatto anche con il decreto sull’evasione fiscale.
C’è poi un altro aspetto: sarebbe necessario un più ampio ricorso ai riti alternativi, come l’abbreviato e il patteggiamento. Bisognerebbe incentivarli in modo che gli eventuali effetti negativi della sospensione della prescrizione dopo il primo grado siano compensati con un maggiore ricorso ai riti alternativi. Ma difficilmente si farà questo step: si tratterebbe, infatti, di una decisione in controtendenza rispetto alle decisione prese dal governo Lega M5s, nel corso del quale è stato introdotto un provvedimento che esclude il rito abbreviato per i reati per i quali è previsto l’ergastolo. Peraltro, anche questa norma determinerà un ulteriore rallentamento della macchina del processo. Sa, i procedimenti davanti alla Corte d’Assise sono lunghi e impegnativi. Ciò determinerà un assorbimento di risorse e il rischio di impasse.

A proposito del carcere per gli evasori, Bonafede ha parlato di svolta culturale. Lei come interpreta questo provvedimento?

Io credo che uno dei problemi principali sul tema sia quello relativo ai controlli. Se questi fossero efficaci, sarebbero sufficienti, almeno in alcuni casi. Ma, d’altro canto, noi abbiamo il sistema che indulge spesso con i condoni, che creano una sorta di aspettativa, della serie “quello che non pago oggi, nella peggiore delle ipotesi lo pagherò domani”. Ecco, sono questi i temi culturali che dovrebbero essere affrontati in primis. Quanto alle sanzioni penali, io dico una sola cosa: una volta disposte per legge, bisognerà fare i le indagini, e poi i processi. Noi ci troviamo in una struttura che è quasi al collasso, che assolutamente non riuscirà a sostenere l’impatto del blocco della prescrizione dopo il primo grado, figuriamoci cosa può succedere se incrementiamo il carico con nuovi reati.

È per questo motivo che ha definito, in un recente intervento sul tema, il carcere agli evasori “una norma manifesto”?

Sì, perché se la misura viene messa all’ordine del giorno, anche con una certa enfasi, ma poi non ci sono i controlli su chi evade, è chiaro che diventa una norma manifesto. Il rischio è di trovarsi di fronte a una presa di posizione formale che però non si traduce in una maggiore severità del sistema nei confronti degli evasori, diventa una minaccia poco credibile. 

Tra le proposte sul tavolo in tema di giustizia - anche alla luce dell’inchiesta sulle nomine della procura di Perugia - ce n’è una di cui si dibatte da mesi: quella della riforma elettorale del Csm. Bonafede sembra aver fatto un passo indietro rispetto al sorteggio. Ma, secondo lei, è necessario riformare il modo di eleggere i consiglieri? E in che modo?

La magistratura, nella sua quasi totalità, ha sempre sostenuto che il sorteggio fosse una scelta sbagliata. È una chiave di approccio al tema che non è condivisibile. Mi fa piacere che il ministro abbia cambiato idea. Detto ciò, bisogna ricordare che il sistema elettorale attuale del Csm è una dalle cause che ha prodotto i fatti che sono venuti alla luce a primavera (il caso Palamara, ndr). Come avviene in ogni sistema elettorale, quando va verso il maggioritario uninominale, il risultato è un rafforzamento del potere di chi propone le candidature. È successo in passato in politica, e nel passato più recente è accaduto in magistratura. Gli eletti venivano selezionati e nominati dalle correnti. Area aveva pensato al sistema compensativo delle primarie, altre correnti non hanno pensato a strumenti che potessero colmare il gap di rappresentatività che si era venuto a creare con il sistema elettorale. E così si è venuto a creare un meccanismo per cui gli eletti erano condizionabili dai soggetti che, all’interno delle correnti, avevano la capacità di gestire il consenso. Parte di quello che è successo è sicuramente conseguenza di questo sistema. Quindi, il sistema elettorale va rivisto.

Come?

Occorre avvicinare l’elettore all’eletto e consentire una maggiore possibilità di scelta agli elettori. Una delle caratteristi dell’attuale sistema è quello del collegio unico nazionale, che comporta, ad esempio, il fatto che un magistrato di Caltanissetta possa essere chiamato a votare per un magistrato di Milano che non ha mai sentito nominare in vita sua. Se dà la preferenza a quel nome, molto probabilmente lo fa perché il circuito della corrente cui appartiene glielo suggerisce. Diventa una scelta in bianco. Se noi sostituiamo il collegio unico nazionale con un sistema con più collegi elettorali avviciniamo il candidato all’elettore.

A proposito di eletti ed elettori. C’è un’altra questione che non si può più procrastinare, quella delle cosiddette porte girevoli tra politica e magistratura. Come si affronta?

Ci sono due linee guida che, a mio parere, andrebbero seguite. Sono quelle delineate già da tempo dall’Anm: la prima è che non si possono porre limiti alla libertà del magistrato di candidarsi. È suo diritto farlo, come per ogni cittadino. Tema diverso è, invece, cosa fare quando il mandato politico finisce. Area ritiene che una volta compiuto un incarico politico, la toga non possa continuare a fare il magistrato, ma che possa essere destinato a funzioni diverse, amministrative. Il legislatore dovrà decidere se questa destinazione debba essere temporanea oppure a tempo indeterminato. Certamente è necessario un distacco.

Riforma del processo e del Csm a parte, c’è un altro disegno che in questo momento è in discussione Parlamento e riguarda i magistrati. Mi riferisco alla proposta di legge di iniziativa popolare sulla separazione delle carriere, lanciata dalle Camere penali e sostenuta in primis da Forza Italia. Cosa ne pensa?

 Come la stragrande maggioranza dei magistrati italiani sono contrario alla separazione delle carriere. Credo che la figura del pm, per come è stata disegnata in Costituzione e nel codice di procedura penale, sia una figura di garanzia. Non vedo perché dovremmo privarci di un sistema che presuppone un pubblico ministero terzo e imparziale. Detto ciò, vorrei ricordare che questa proposta introdurrebbe una serie di modifiche che poi inciderebbero sull’indipendenza di tutti i magistrati, anche dei giudicanti. Mi riferisco, ad esempio, alla creazione di due Csm che sarebbero composti dallo stesso numero di togati e laici. Se vogliamo guardare a tutto tondo le vicende di maggio, non possiamo non ricordare che a quelle riunioni partecipavano anche i politici. La politica, nelle sue articolazioni meno nobili, ha sempre coltivato l’idea di normalizzare la magistratura, di esercitare un controllo sulle toghe. Se passasse questo progetto, tale disegno riuscirebbe a trovare concretezza. 

La proposta è in commissione. Il Pd, almeno per quanto riguarda la separazione delle carriere, non ha mostrato particolari resistenze. Un atteggiamento che stupisce?

Che il Pd abbia avuto una posizione blanda su questi temi è stato per me una sorpresa. Anche perché non mi sembra che all’interno del partito ci sia stato un dibattito che l’abbia condotto da una posizione a quella diametralmente opposta. Questa tesi della separazione delle carriere era un cavallo di battaglia del centro destra. Ora, improvvisamente, è diventato un tema comune. E questo lascia perplessi.

Dopo la bocciatura di Goulard Macron propone l'ex ministro Breton alla Commissione Ue

$
0
0

Due settimane dopo la bocciatura da parte del Parlamento europeo di Sylvie Goulard, il presidente francese Emmanuel Macron ha proposto questa mattina Thierry Breton, 64 anni, ex ministro dell’Economia che ha nel suo lungo curriculum anche il salvataggio di France Telecom, come nuovo esponente della Francia nella Commissione europea. Lo ha annunciato l’Eliseo.

Breton è candidato ad essere il nuovo commissario a Industria e Mercato interno.

Non è maltempo, è l’emergenza climatica

$
0
0

Chiamiamo le cose con il loro nome. Non è maltempo quando in quattro giorni cade un terzo della pioggia annuale, ventimila fulmini si scaricano a terra in poche ore e si riproduce in continuazione il temporale alimentato dalla temperatura più alta del normale sul Tirreno. 

È il rispetto che dobbiamo a Fabrizio Torre che ha perso la vita con un torrente innocuo trasformato in mostro, l’Albedosa tra Novi Ligure e Ovada, alle centinaia di persone sfollate, a chi ha perso tutto di nuovo e ai milioni di persone a cui tutto questo è già successo e in modo anche più devastante in tante parti del mondo, a imporci di chiamare le cose con il loro nome. 

Chiamare le cose con il loro nome è il solo modo che abbiamo per iniziare ad affrontare un problema, piccolo o gigantesco che sia. 

Non è maltempo, è l’emergenza climatica. E per inciso, anche i quasi trenta gradi di Roma non sono uno scampolo d’estate, ma di nuovo una spia dell’emergenza climatica. 

Ed è l’attività umana a provocarla bruciando carbone, petrolio e gas, abbattendo alberi, non utilizzando al meglio l’agricoltura per catturare carbonio. 

Certo, essenziale la cura del territorio, lo stop al consumo di suolo, il miglioramento del sistema di allerta e di reazione alle emergenze. Sono gli interventi necessari che più immediatamente colleghiamo agli eventi tragici degli scorsi giorni. Ma è la radice del problema che va affrontata, è la corsa delle emissioni di gas serra a aggravare e provocare queste tragedie.  

Dobbiamo fare un passaggio logico in più e vedere che sono le centrali a carbone, le auto più inquinanti, la produzione della plastica e tutte le altre attività alle quali siamo abituati e che fin qui ci hanno consentito uno straordinario sviluppo a mettere ora in pericolo la nostra vita sulla terra.

Dobbiamo insomma capire che solo se lavoriamo con urgenza alla riconversione dell’economia per arrivare a zero emissioni nette al 2050, seguendo le indicazioni della scienza, insieme agli altri paesi e con una transizione giusta che sostenga chi viene penalizzato come i lavoratori dei settori più inquinanti, riusciremo davvero ad affrontare gli eventi tragici di questi giorni. 


È allerta maltempo in tutta Italia. Rischio nubifragi e temporali da Nord a Sud

$
0
0

Il maltempo continua a tormentare l’Italia. Per i prossimi giorni, si preannuncia allerta da Nord a Sud. Dopo aver flagellato il Nord-ovest e aver fatto due vittime in Piemonte, la perturbazione scende lungo la penisola e si allarga.

Una fase di intenso maltempo con rischio nubifragi su Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia e Sardegna, quindi Toscana, Lazio e infine Sicilia. Scirocco con raffiche fino a 100 km/h.

È allerta maltempo per giovedì 24 ottobre anche nel Lazio. “Il Centro Funzionale Regionale rende noto che il Dipartimento della Protezione Civile ha emesso oggi un avviso di condizioni meteorologiche avverse con indicazione che dalla mattinata di domani, giovedì 24 ottobre e per le successive 18-24 ore si prevedono sul Lazio: precipitazioni a prevalente carattere di rovescio o temporale, anche di forte intensità”, lo ha comunicato in una nota la Protezione Civile del Lazio.

È moderata criticità in Lombardia, con codice arancione sulla pianura centrale e su quella occidentale della Lombardia e per rischio idrogeologico sull’appennino pavese. Scuole chiuse da oggi nei Comuni delle province di Grosseto e di Livorno per l’allerta meteo di colore arancione diramata dalla Regione Toscana, dalle 10 fino alla mezzanotte, per quanto riguarda Maremma, la Val di Cornia e le isole dell’arcipelago.

Intanto, ancora pioggia diffusa su tutta la Liguria dove dalla mezzanotte è scattato l’allerta arancione ma nessun temporale intenso nella notte e temperature in leggero calo. Al momento dalla Corsica si stanno generando celle temporalesche che risalgono il Mar Ligure ma “che si stanno scaricando in mare - ha detto Federico Grasso, di Arpal - ma vanno seguite con molta attenzione.

Potrebbero sciogliersi o disgregarsi prima di arrivare sulla costa oppure potrebbero rinvigorirsi e dare luogo a precipitazioni molto intense e con folate di vento molto forti”. Il consigliere delegato alla Protezione civile del Comune di Genova Sergio Gambino ha sottolineato che “si prevedono ancora piogge diffuse ancora per un paio di ore, ma fortunatamente non ci sono temporali”.

Le scuole a Genova restano aperte, chiuse nelle Valli Scrivia e Stura, alle 5 Terre e in numerosi comuni dell’entroterra. La viabilità nella città metropolitana. Sotto sorveglianza le frane cadute nei giorni scorsi, come quelle di Campo Ligure e di Rossiglione, comuni particolarmente colpito dal maltempo nei giorni scorsi, che ha portato numerosi sfollati. L’allerta arancione permane fino alle 15 dal Ponente fino a Camogli e fino alle 18 sul Levante Ligure.

Perché rischiare il carcere per curarsi con la cannabis?

$
0
0

Rischio il carcere per curarmi”, questo è l’appello di Walter De Benedetto, un malato di artrite reumatoide di Arezzo, che da qualche giorno gira su tutti i social. Walter da anni ha un piano terapeutico che prevede una certa quantità di cannabis. Malgrado la Regione Toscana sia stata la prima in Italia a rimborsare i costi dei vari preparati prodotti in Italia o importati dall’Olanda o dalla Germania, la ASL della sua città non ne ha abbastanza e, “salomonicamente”, la divide con altre decine di persone che hanno patologie differenti ma esigenze simili.

Walter ha deciso di assumersi la responsabilità di farsi portavoce del dolore, e spesso della disperazione, di migliaia di persone che hanno, tra i vari, anche il problema di non poter ricevere la quantità di cannabinoidi prevista dal proprio medico. Walter ha deciso di scrivere al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, al Presidente della Camera Roberto Fico e ai ministri della Salute e della Difesa per chiedere un incremento della produzione di cannabis terapeutica. Non per sé ma per tutti.

Dal 2007 l’Italia consente la prescrivibilità dei prodotti a base di cannabis per vari tipi di condizioni, e dal 2012 una quindicina di Regioni hanno adottato leggi per rimborsare i prodotti specificando chi possa scrivere le ricette e chiarendo il catalogo dei prodotti rimborsabili. Dal 2015 lo Stabilimento Farmaceutico Militare di Firenze coltiva infiorescenze ricche di CBD (uno dei due principi attivi utilizzati per fini terapeutici) che spedisce direttamente alle farmacie che ne fanno richiesta. Da una decina d’anni la stragrande maggioranza dei prodotti disponibili sul mercato provengono dall’Olanda (e sono ricchi anche di THC), mentre dal 2018 sono stati importati prodotti anche dalla Germania a seguito di specifiche gare d’appalto.

Da qualche settimana l’Unione europea ha approvato l’Epidiolex, un farmaco a base di cannabis indicato per il trattamento di forme rare ma gravi di epilessia. E’ la prima volta che accade nel nostro continente. Si tratta di un prodotto made in USA lanciato nel 2018. A seguito di questo riconoscimento da parte dell’Agenzia del farmaco europea potrà esser prescritto in tutti gli Stati Membri dell’UE. L’Epidiolex si presenta in forma liquida da assumere per bocca, come fosse uno sciroppo, e contiene solamente CBD.

Secondo stime del Governo, il fabbisogno nazionale è intorno ai 1000 chili. A metà giugno 2019 l’Agenzia Industrie Difesa ha indetto una prima gara a procedura aperta accelerata (importo presunto 1.520.000,00 Euro al netto di IVA) per la fornitura di 400 Kg di cannabis (320 Kg contenenti THC, 30 misto THC e CBD e 30 prevalentemente CBD) per le esigenze dello Stabilimento Chimico Farmaceutico di Firenze e una seconda per dei macchinari (importo presunto 230.000,00 Euro al netto di IVA) per rafforzare la produzione made in Italy nel capoluogo toscano.

Malgrado a Firenze la coltivazione continui, non senza problemi, siamo ancora a corto di prodotti per soddisfare le esigenze di un numero crescente di malati. Quante siano però le persone che ricevono prodotti a base di cannabis per terapie non è dato sapere - il Ministero della Salute è in ritardo nella pubblicazione dei dati relativi al numero di ricette, le condizioni per cui sono previsti i piani terapeutici, le tipologie di prodotto prescritte e gli eventuali effetti avversi.

E pensare che l’Italia è stato tra i primi stati sovrani a legalizzare l’accesso a terapie a base di cannabis e che nel 2018, secondo un rapporto delle Nazioni unite, è tra i primi dieci produttori di cannabinoidi terapeutici al mondo!

Nel 2019 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha raccomandato alla Commissione sulle Droghe delle Nazioni unite di togliere la cannabis dalla tabella delle piante e sostanze più pericolose in modo da facilitarne l’uso medico-scientifico previsto dalle convenzioni internazionali. L’Italia ha ricollocato la pianta nella seconda tabella nel 2014 a seguito, tra le altre cose, della dichiarazione di incostituzionalità della Legge Fini-Giovanardi del 2006. 

Per sua stessa ammissione, quella di Walter De Benedetto è “una storia di negazione del diritto alla salute e di accesso a terapie per curare il dolore grazie alla cannabis”. All’inizio di ottobre nella sua casa di Arezzo sono state sequestrate nove piante di marijuana che Walter utilizzava “arrangiandosi” per alleviare i dolori dell’artrite reumatoide che non riusciva a lenire per via dell’insufficienza dei prodotti provvisti dall’ASL.

Nella sua lettera a governo e Parlamento Walter ricorda che “la scarsità dei prodotti è dovuta a una crescente domanda a cui l’Italia non riesce a corrispondere con la produzione nazionale o le importazioni” e si appella affinché la nuova legge di bilancio preveda “ulteriori finanziamenti in questo senso”.  

Nel 2016 l’Associazione Luca Coscioni e Radicali Italiani, insieme a decine di altre associazioni, hanno raccolto oltre 68.000 firme per presentare una proposta di legge d’iniziativa popolare per la legalizzazione della cannabis (per tutti i fini); se nella XVII Legislatura esisteva un inter-gruppo di quasi 300 tra Deputati e Senatori, dal 2018 si sono perse le tracce della volontà riformatrice. Eppure, almeno sulla carta, ci sarebbe una maggioranza parlamentare che nei propri programmi e dichiarazioni sarebbe a favore della regolamentazione legale.

Alla lettera di Walter De Benedetto si aggiungono le oltre 25.000 firme raccolte su un paio di appelli che chiedono la ricostituzione dell’inter-gruppo, la presentazione di altri disegni di legge, e comunque di iscrivere all’ordine del giorno la proposta popolare che prevedeva norme molto più liberali e onnicomprensive relative anche agli aspetti terapeutici della pianta.

Riusciranno ancora una volta i malati, che lottano con i loro corpi contro la malattia, ad arrivare al cuore della politica piuttosto che rischiare il carcere per vedere il loro diritto alla salute rispettato?

"Harry non ha imparato la lezione della madre Diana"

$
0
0

Se solo si fosse fermato alla visita al campo minato. Se solo avesse ripercorso i passi della madre Diana, senza andare oltre. Invece no. Il principe Harry ha fatto di più durante il suo viaggio in Sudafrica, il primo in compagnia della moglie Meghan e del figlio Archie: ha rivelato ai media le sue frustrazioni, esponendosi al loro giudizio e dimostrando in questo modo di non aver affatto imparato la lezione di sua madre. Questo è almeno ciò che sostiene Richard Kay, giornalista del Daily Mail esperto di affari reali e amico della principessa defunta. 

Nel documentario “Harry & Meghan: An African Journey”, la coppia si confessa di fronte all’obbiettivo dell’amico regista Tom Bradby rivelando le tensioni con William e Kate e le pressioni subite dai paparazzi e dal contesto reale. Un’intervista, andata in onda il 20 ottobre nel Regno Unito, che ha sconvolto Buckingham Palace, e non solo. Secondo Richard Kay, la scelta di aprirsi è stata poco saggia e infelice ed è paragonabile per scelleratezza all’intervista rilasciata da Diana a Panorama o alla confessione di Carlo sul fallimento del suo matrimonio. 

Nel 1995 Diana rilasciò un’intervista al programma della BBC Panorama e fece scalpore parlando del tradimento del Principe Carlo con Camilla Parker Bowles e dei suoi problemi di depressione, bulimia e autolesionismo. Anche Carlo si confessò al biografo Jonathan Dimbleby rivelando di non aver mai amato lady D e di averla sposata solo per ragioni di Stato. “Entrambe le iniziative sono state mosse da nobili principi, per correggere quelle che credevano essere delle idee sbagliate sui loro ruoli e sulle loro vite. Eppure sono ricordate solo per le ammissioni fatte sull’adulterio”, scrive Richard Kay. Secondo il commentatore, quelle confessioni non hanno avuto l’effetto sperato: hanno danneggiato entrambi, sia il principe sia la principessa del Galles, e hanno “sporcato” l’immagine della monarchia. 

Allo stesso modo, l’intervista di Harry promette di dar solo frutti negativi. “In quanto amico della madre di Harry e reporter di questo giornale, ho un posto a bordo ring dell’intera faccenda. Harry in tv ha riportato indietro le lancette dell’orologio a quei giorni bui. L’ammissione dell’allontanamento da William ha già innescato una serie di conseguenze inattese”, afferma Kay. Tra queste, c’è la reazione di Kensington Palace: se William ha dato una risposta diplomatica, dicendosi preoccupato per il fratello, Kensington Palace si è spinto oltre affermando che il principe e Meghan si trovano in una condizione “fragile”. Una fonte interna, rimasta anonima, ha rivelato alla CNN la presunta isteria collettiva scatenatasi a palazzo dopo l’intervista: tutti sarebbero impauriti e starebbero cercando di svalutare la coppia, “l’unica che - da sola - intende modernizzare la monarchia”.

Insomma, la confessione ha dato vita ad una valanga di critiche. Ma era proprio questo l’obiettivo che Harry voleva raggiungere? Di fronte alla telecamera, il principe ha raccontato di come ogni click dei fotografi gli ricordi la morte della madre, ossessionata dai paparazzi, e Meghan ha parlato delle difficoltà legate alla popolarità. Entrambi però - proprio a causa di questa intervista - hanno ottenuto l’effetto opposto: invece di proteggere la loro vita privata, l’hanno esposta ancora di più, accendendo curiosità e mettendo sotto i riflettori i loro pensieri più intimi. Fu proprio questo l’errore di Diana: pur braccata dai fotografi, non riuscì a proteggersi in maniera adeguata e decise volontariamente di esporsi al giudizio altrui parlando degli aspetti più personali e dolorosi della sua vita. Un errore che il figlio Harry sembra ripetere, seppur in maniera inconsapevole. 

In Cina la prima edizione della Coppa del Mondo per club. Infantino: "Decisione storica"

$
0
0

La Fifa ha assegnato alla Cina l’edizione inaugurale della Coppa del Mondo per club a 24 squadre: lo ha annunciato il presidente dell’associazione Gianni Infantino, definendola una “decisione storica”. Il nuovo torneo, ha aggiunto Infantino in conferenza stampa a Shanghai, “sarà capace di coinvolgere chiunque, sarà la prima competizione che vedrà in campo i migliori club del mondo”.

L’appuntamento è per giugno-luglio 2021, con il via libera all’unanimità malgrado i dubbi dei mesi scorsi espressi soprattutto dai club europei.

Ha il prato pieno di scarafaggi e allora decide di far esplodere il giardino di casa

Viewing all 105427 articles
Browse latest View live


<script src="https://jsc.adskeeper.com/r/s/rssing.com.1596347.js" async> </script>