Siamo nel quartiere Trieste, a Roma, il centro della nuova storia in cui Sandro Veronesi - scrittore tra i più amati e letti in Italia e non solo, già vincitore del Premio Strega per Caos Calmo, di due Campiello e di molti altri – ha deciso di ambientare il suo nuovo romanzo, Il colibrì, in libreria per La Nave di Teseo. In quel quartiere “che ha sempre oscillato tra l’eleganza e la decadenza, tra il lusso e la mediocrità, tra il privilegio e l’ordinarietà”, un uomo come tanti, il medico oculista Marco Carrera sta per ricevere una rivelazione durante la visita a un paziente. “Mi dica”, fa lui, subito incuriosito e preoccupato da quel momento sensazionale che va a disturbare la sua ordinarietà. “C’è un matrimonio di mezzo, cazzo, c’è una figlia!”. E il paziente, tale Daniele Corradori: “Mi dispiace dirglielo, ma il suo matrimonio è finito da un pezzo, dottor Carrera. E di figlio ce ne sarà un altro, tra poco, ma non sarà suo”.
Siamo all’inizio del romanzo. E lui, che tutti chiamano Colibrì, proprio come l’uccello sacro ai Maya, è sospeso tra coincidenze e perdite, gioia e dolore, nostalgia e futuro e il suo è un movimento continuo, incessante, per cercare di rimanere fermo, anche se a volte non è possibile, come nel suo caso. Veronesi ci getta in quel mondo che va dall’inizio del nuovo Millennio a un futuro prossimo come se fossimo in un mare aperto, dandoci solo una tavola di legno cui appoggiarci e la capacità di saper nuotare fino a riva, ma non è detto che sia quella la salvezza, perché può sempre arrivare un’onda anomala a risucchiarci e a rovinare ogni cosa. Leggere questo suo nuovo libro, oltre che emozionante, sarà terapeutico, un insegnamento a continuare, a infischiarsene dei sensi colpa, degli “ingombri” (che qui, come nella vita vera, sono molto pesanti), a trovare o ritrovare sé stessi. Un invito a vivere nonostante tutto, basta solo provarci. Tanto tempo è stato necessario per scriverlo ed è lui stesso a confermarcelo:
“L’ho iniziato nel 2014, dopo qualche mese dalla pubblicazione di Terre rare. Mentre di Caos Calmo ho saputo dire quale è stato il momento in cui si è formata la prima idea generatrice, qui non lo so…può darsi che me lo portassi dietro da tanto tempo e in effetti ricordo che dei pezzi significativi - come il modellismo del padre del protagonista (che progetta un casa delle bambole sui generis, che tutti, anche i bambini avrebbero voluto avere, starà a voi scoprirlo, ndr) – siano stati con me da tempo. Ho sempre pensato che quello fosse un mestiere molto cinematografico e molto bello da descrivere: un ingegnere che non progetta, ma realizza i plastici dice molto del suo essere e della bellezza. È una cosa che avevo da sempre: non è generatrice, ma è accessoria. Quel vortice generatore non me lo ricordo. In ogni caso, ho preso il tempo di cui avevo bisogno, cinque anni anziché tre come si era stabilito, ma va bene così”.
Mi dica di Marco Carrera: perché lui, così come tutti i protagonisti degli altri suoi libri, viene definito un eroe?
“In effetti, anche dentro al romanzo stesso, sotto forma di accusa, rivolgendosi allo psicoanalista della sua innamorata, lui ammette di avere una visione eroica della vita. Gli eroi sono quelli si definiscono tali, che decidono di vivere da eroi, dopodiché il loro eroismo può anche consistere nel non fare male a nessuno, nel non fare niente. È l’atteggiamento nei confronti della vita che è eroico. Devo dire che è vero che i miei personaggi sono quasi tutti eroici nel loro atteggiamento, perché io per quattro, cinque romanzi, non ricordo bene adesso, ho messo l’esergo con la stessa frase di Samuel Beckett, “non posso continuare, continuerò”. È uno degli atteggiamenti possibili della vita come una delle derive patologiche nelle quali si può perdere l’individuo. C’è quello che ha una visione eroica della vita, quello che ha una visione vittimistica, quello che ce l’ha narcisistica. L’eroe è anche quello che racconta di esserlo senza compiere nessun atto di eroismo”.
A proposito di frasi. “Preghiamo per lui e per tutte le navi in mare” la troviamo all’inizio e alla fine del libro: perché?
“È una frase che mio padre diceva, perché a sua volta gli veniva detta da piccolo. Era un uomo che amava navigare, amava il mare. Per lui le navi in mare erano sacre, qualsiasi nave fosse bisognava considerarla come tale. In più, di questi tempi, considerando quello che viene fatto alle navi in mare, mi sembrava che ripescare questa cosa di mio padre e metterla all’inizio e alla fine in due circostanze diverse, ma poi fondamentalmente simili, due grandi urti emotivi, mi è piaciuto. Le navi in mare sono l’esempio di chi tra un minuto potrebbe essere in difficoltà, di avere bisogno di questa preghiera. Mio padre, da navigatore dilettante, non era un credente, ma quella era una frase che diceva. Forse, addirittura, l’ha detta una volta sola, ma mi è rimasta impressa”.
Che famiglia ha avuto?
“Ho avuto una famiglia borghese, ma felice, una di quelle di cui c’è poco da raccontare stando alle regole dettate dal romanzo di Tolstoj. In effetti però sì, è da raccontare, perché quella felicità, la felicità del nucleo, dei genitori dei due figli che vanno al mare e al ristorante, è cosa rara. Siamo sempre stati una nube di felicità che si sposta nel mondo e sempre immuni dai disastri che ci capitavano intorno e che vedevamo. All’interno della nostra stessa famiglia c’erano litigi, c’erano rotture, ma tra noi no”.
L’infelicità, che può arrivare sotto vari aspetti, può aiutare ad andare avanti?
“A me l’infelicità non me l’hanno trasmessa i miei genitori, me la sono fabbricata da solo. Quando è toccata a me che non ho fabbricato una famiglia felice, sono stato il primo ad essere investito di un’infelicità che poi ha riguardato tutti. Parlo solo della mia infelicità, perché ci sono poi altre forme d’infelicità. In tutto il romanzo cerco di sostenere l’idea che il dolore e l’infelicità sono vita, sono qualcosa che non va ributtata in mare come il pesce troppo piccolo, ma va tenuta, uno se la deve vivere”.
Nel romanzo c’è dolore, ci sono le difficoltà, la solitudine e la morte, ma anche c’è molta vita.
“Forse è questo l’eroismo di cui parliamo, perché oggi è un tempo in cui il dolore viene quasi criminalizzato, si deve per forza eliminare. Il dolore fisico lo dobbiamo eliminare con gli analgesici in tutti i modi possibili e con le sostanze cancellare anche il dolore morale che è diavolo, invece non è così. Il dolore perde e quando finisce è un sollievo tale che sfiora la felicità”.
“Amarsi presuppone reciprocità”, scrive lei nel libro, ma non solo. Adesso che ha una nuova famiglia, è felice?
“Sì, adesso, il secondo tentativo è andato meglio. È proprio come nel romanzo. Io questa felicità familiare del secondo matrimonio la vivo tutti i giorni. L’infelicità è ormai lontana nel tempo, anche i miei figlioli che sono cresciuti l’hanno superata, ma quella è sempre viva nel ricordo, perché è una cosa nella quale sono mancato. Ho cercato di dare ai miei figli la stessa felicità che avevo da piccolo, però non ci sono riuscito. A quel fallimento penso spesso, ma cerco di cavarne dell’energia, della forza e del carburante necessario per impegnarmi a non fare altrettanto in questo secondo tentativo”.
La malattia cosa insegna?
“A me ha insegnato che non sei immune da nulla, perché fino ad un certo punto ci si protegge dalle paranoie, dalle ansie e dalle angosce anche pensando che certe cose non ti capitano. Sono ragionamenti che si fanno tra sé e sé per allontanare quell’angoscia. Quando però ti capita, alla fine quello è il modo migliore per eliminare le angosce. Il modo migliore per eliminarle è avercela una malattia. Devi avere la fortuna, poi, di poterla raccontare e non si sa nemmeno quanto duri questa fortuna, però intanto la racconti e ti accorgi che tutto, male compreso, è a mezzo metro da te. Non ci si deve sorprendere quindi se accade qualcosa”.
Il colibrì è un titolo che non ha scelto a caso…
“Sì, perché quello è un uccello quasi fantastico. È l’unico che può stare fermo in aria, ma addirittura volare all’indietro. A qualcosa gli servirà, perché non credo che gli uccelli facciamo solo spettacoli di arte varia. Probabilmente servirà a tutta la specie per sopravvivenza. È un punto di vista, quello del colibrì, che peraltro che tramite un articolo vero di Marco D’Eramo che cito nel libro, veniamo a sapere che è la forma di ricompensa massima per i morti dell’epoca azteca. Nella lorotradizione si riteneva che l’anima del guerriero morto in battaglia si trasformasse in colibrì. In quell’uccello c’è tutta un’idea di grazia, leggerezza e beatitudine totale. Il colibrì da’ anche l’idea della conservazione: conserva la posizione che è un mondo che attorno a Marco Carrera, il protagonista del mio romanzo, si può toccare. In effetti lui è un conservatore. Nella prima scena, l’unica cosa che si vede bene è la copertina di un disco del 1973 pur essendo la storia ambientata in quel momento nel 1999 con giradischi e amplificatori degli anni Settanta. È uno che conserva gli oggetti e il mondo così come è, una forma che il nostro tempo tende a sottovalutare mentre si cerca sempre a sopravvalutare l’impulso al cambiamento, alla novità e al progresso”.
Veronesi è un conservatore o un progressista? Conosciamo già la risposta, ma ce la dica lei.
“Io sono permeato da questa convinzione che sia meglio il cambiamento che la stasi, però stavolta ho voluto mettere come personaggio, come eroe, un conservatore vero, uno che prima di cambiare i valori, vuole essere sicuro che sia meglio. È difficile, liberatorio e catartico, perché è vedere poi le cose con lo stesso rigore morale, perché non è che un conservatore sia moralmente inferiore. Alla fine quando e chi lo ha deciso che io sono progressista? Questa è per me come una casa che mi sono trovato ad abitare, però non mi dispiacerebbe affatto di essere un conservatore come Marco Carrera, anzi, non cambierebbe nulla. Quando ho scritto Il vangelo di Marco (nel 2015, ndr) e sono andato poi nei teatri a recitarlo, mi sono voluto interrogare sulla differenza tra me e un credente, visto che io continuavo a non essere un credente. Nel mio rapporto con la divinità, ovviamente, c’era tutta la differenza del mondo, perché se non ci fosse stata, io non la potevo fregare o non mi ci potevo raccomandare; nel mio rapporto con gli uomini, invece, non c’era e non c’è nessuna differenza tra me e un credente, perché io mi comporto esattamente come mi comporterei se fossi un credente, come si comportano i bravi cristiani. Io sono progressista perché l’ho deciso da ragazzo, ma Carrera, che è un uomo comune, non è un leader e “conserva”, a me non dispiace affatto”.
Lei scrive da sempre, ma quando ha iniziato a farlo ?
“È una passione cominciata molto presto. Il primo grazie lo devo dire ad un professore che credo si ancora vivo. Si chiamava Giovanni Goretti che ci fece leggere Dostoevskij a quattordici anni, in prima liceo, fuori programma, mettendolo però poi alle interrogazioni in cui chiedeva cosa avevamo letto e se avevamo capito I Fratelli Karamazov e altri suoi libri. Mi fece scoprire e conoscere l’impatto che può avere una grande narrativa su un ragazzo piccolo. Senza quell’urto, non sarei stato probabilmente così attratto, negli anni successivi, dalla lettura e dalla scrittura dei grandi scrittori. Poi, per emulazione, mi è venuta voglia di farlo. Ho incontrato persone che lo facevano, anche perché all’epoca vivevo a Prato ed erano pochi quelli che prendessero sul serio l’ipotesi di diventare scrittori. La prima persona che ho conosciuto e che non si vergognava di dire che avrebbe voluto fare lo scrittore, era più grande di me di tre anni: Edoardo Albinati. L’ho conosciuto al mare. Era uno degli amici del mare. Poi mi ha fatto conoscere altri come lui che non si vergognavano di dire quella frase: “voglio fare lo scrittore”. Erano Marco Lodoli, Valerio Magrelli e altri, gente che non stava millantando nulla a ventidue anni. Mi hanno dato molto coraggio, perché all’epoca c’era anche un ruolo sociale in chi voleva fare lo scrittore. C’era un posto nel mondo, anche se io pensavo che non ci fosse. Più tardi, ci sono stati Enzo Siciliano da una parte e Vincenzo Cerami dall’altra. Mi hanno aiutato in tanti modi, incontri importanti affinché prendessi fiducia come scrittore”.
Lo scrittore può fare quello che vuole? Qual è il rischio?
“Il rischio è di restare impigliati in una velleità, in un rammarico perché non ce la fai…il rischio è alto. Non penso mai a come sarebbe andata se non ce l’avessi fatta, mentre a volte penso a come sarebbe stata se non fossi nato in una famiglia agiata, se avessi dovuto subito lavorare invece che studiare, perfettamente fuori dall’ambito borghese ed intellettuale”.
Che lavoro avrebbe voluto fare?
“La risposta è sorprendente, ma veritiera. Avrei voluto fare il cameriere, perché mi piace servire. C’è una cosa molto nobile nel servire. Mi penso così. Non meccanico, ma quello”.
Lei ha vinto lo Strega, il Campiello e molti altri premi: che valore hanno?
“Hanno il valore di un riconoscimento che una certa giuria da’ al libro che hai scritto. Per me è prezioso ed importante, ma se ne fa anche a meno. Non ho mai pensato che i premi si possano perdere. I premi si possono solo vincere se te li danno. Se non te li danno, tu non vinci nulla, ma non perdi neanche qualcosa. Non è che scommetti e perdi come avviene nel gioco d’azzardo. Per alcuni sono inutili e sporchi. Nella mia esperienza, non sono stati né inutili – perché sono serviti a darmi fiducia – né sporchi, non mi risulta affatto. Certi premi aiutano sicuramente ad essere letto. Se qualche premio alza il numero di chi legge, è per me una caratteristica molto positiva”.
Scrittore e ovviamente lettore: quando legge?
“Sono molto rapsodico, leggo a vampate, ci sono periodi in cui leggo cinque o sei libri, uno dopo l’altro, e passo le mattinate intere a leggere come a scrivere, perché quello è il momento più tranquillo. I bambini sono a scuola e non devo fare quasi niente se non leggere e scrivere. Leggere tutta la mattina per tre o quattro ore di seguito è davvero molto bello. Preferisco la mattina alla sera”.
Si sa che lei scrive a porte aperte, anche con la famiglia attorno, perché non ha una stanza tutta per sé…
(ride, ndr) “Ora ce l’ho. Non è ancora finita, abbiamo fatto un cambiamento nella casa, avrò presto una stanza tutta per me, uno studio vero e proprio. Ho scritto sempre a porte aperte con i bambini, la vita di una casa e di chi la abita. Ora, al chiuso in quella stanza, sarà una bella sfida scrivere, quindi vediamo. Senza ci riuscivo, con è da vedere”.