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La ribellione dell'orso. Aggredisce i domatori durante lo show circense


Un anno in carcere accusato di stupro, poi la donna ritratta e viene assolto

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Ha passato più di un anno in carcere accusato di violenza sessuale e ieri, dopo un colpo di scena con la presunta vittima che è crollata in aula dicendo di non essere mai stata stuprata, è stato assolto dalla quinta sezione penale di Milano e scarcerato. La vicenda ha visto come imputato un peruviano di 30 anni, difeso dall’avvocato Paolo Pappalardo e per il quale la stessa Procura aveva chiesto una condanna a 7 anni di reclusione.

L’uomo era finito in carcere, nell’indagine del pm Monia Di Marco, su ordinanza di custodia cautelare il 17 ottobre del 2018, accusato di stupro di gruppo (la posizione di un altro peruviano è stata stralciata perché mai trovato) nei confronti di una connazionale 40enne che aveva denunciato il fatto: nella sua versione era avvenuto 10 giorni prima in un parco in zona Lorenteggio, a Milano.

L’uomo è rimasto in carcere durante le indagini e il processo che è poi arrivato alle conclusioni con le richieste delle parti e con la Procura che ha chiesto per lui una condanna a 7 anni. I giudici, tuttavia, poiché il quadro dell’accusa non era affatto chiaro e anche su richiesta della difesa, hanno deciso di convocare, dopo la requisitoria e l’arringa, una donna mai sentita nell’inchiesta e che era presente quella sera al parco, molto frequentato dalla comunità peruviana.

E proprio quella testimone ha raccontato tutta un’altra storia: La stessa versione, tra l’altro, da sempre ribadita dall’imputato, già dopo l’arresto, e dai testi della difesa. Dalla nuova testimonianza è arrivato, dunque, il colpo di scena in aula: quella sera non c’era stata alcuna violenza, ma solo una rissa tra la presunta vittima, l’imputato e un’altra donna per contrasti precedenti.

Davanti ai giudici, poi, è stata chiamata, sempre ieri, sul banco dei testimoni anche la presunta vittima dello stupro che alla fine è crollata e, dopo una serie di domande del presidente del collegio Ambrogio Moccia, ha dovuto ritrattare, negando di essere stata violentata. Le parti hanno preso di nuovo la parola per le repliche e la Procura (in aula non c’era il pm titolare del fascicolo) ha ribadito la richiesta di condanna per il peruviano. I giudici, invece, sulla base dei nuovi sviluppi nel dibattimento, hanno assolto l’imputato, disponendo l’immediata scarcerazione (le motivazioni tra 15 giorni).

Secondo la ricostruzione della difesa, che aveva prodotto anche alcune chat tra imputato e presunta vittima, i due erano amici in passato e poi lui l’aveva denunciata per un’aggressione che avrebbe subito da lei e da alcuni amici della donna. E proprio questa denuncia sarebbe stato il motivo della rissa al parco, poi trasformata dalla peruviana in una denuncia per violenza sessuale e, in più, anche della rapina della sua borsa

Heather Parisi: "Soffrivo di bulimia, pesavo 43 kg. La Cuccarini? Non è niente per me"

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Erano gli anni ’80, Heather Parisi era giovane, era nel pieno della sua carriera, faceva Fantastico 4 con Gigi Proietti. Eppure era caduta in una spirale di insoddisfazione e tristezza. È lei stessa a raccontarlo a “Verissimo”: “Ho sofferto di bulimia. Ero talmente infelice della mia vita privata che mangiavo di tutto e poi vomitavo l’anima. Sono riuscita a pesare 43 chili e più mi dicevano che ero troppo magra, più continuavo a mangiare e poi a vomitare”.

Alla base del problema con il cibo, secondo la Parisi, c’era un problema con l’ambiente che la circondava: “Avevo accanto delle persone terribili che mi hanno portato a prendere decisioni sbagliate. Grazie a mio marito Umberto Maria, senza medicinali e senza terapie mentali, piano piano ne sono uscita”.

Intervistata da Silvia Toffanin, la ballerina americana ha ripercorso la sua carriera. A partire dall’incontro con Pippo Baudo, sebbene non fu quello a cambiarle la vita: “La mia fortuna sono stati il mio talento e la gavetta che ho fatto - afferma -. Secondo me, senza la gavetta e il sacrificio non vai da nessuna parte”. 

Inevitabile, poi, la domanda sulla “nemica amatissima” Lorella Cuccarini, verso la quale Heather Parisi dice di provare solo indifferenza: “Non fa parte della mia vita”, ammette. “Perché dobbiamo parlare di ‘santa subito’? Non abbiamo mai litigato. Dietro le quinte del programma Nemica Amatissima non l’ho mai incontrata, neanche in sala prove e per me è stato molto strano. È stata un’esperienza che potevamo vivere in un altro modo. Lei non è niente per me”.

Elezioni Umbria, le tre sfumature della foto di Narni

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Narni

NARNI - La fotografia iniziale dice tutto. State attenti all’orologio. A Narni, Roberto Speranza, ministro della Salute e leader di LeU, si presenta per primo. Sono le 10 e 30. Forse Speranza è il più voglioso di farsi immortalare con il trio delle meraviglie - Giuseppe Conte, Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti - nel nuovo ritratto del campo progressista in salsa giallorossa. Eccolo allora in via Garibaldi, a Narni, Speranza, puntuale come un orologio svizzero. Indossa un abito, una cravatta a pois, si spara un selfie con il sindaco e con il candidato alle regionali Vincenzo Bianconi. Passano pochi minuti ed ecco materializzarsi Nicola Zingaretti. I due, Speranza e Zingaretti, hanno feeling, si stringono la mano, e poi si appartano per conversare qualche minuto. 

Scoccano le 11. È l’ora prevista per l’inizio della conferenza stampa dell’attesa foto di Narni, con il nuovo centrosinistra unito. Ma non c’è ancora traccia né del premier, né tantomeno del ministro degli Esteri. In quel momento la sala dell’Auditorium San Domenico, ex Chiesa del 1200 che è stata la prima cattedrale della cittadina, circa duecento a posti a sedere, addobbata per le grandi occasioni, con tanto di addetti che cambiano la scenografia. Una sala evocativa che unisce passato e presente, “il medioevo e la tecnologia”, nella spiegazione del commissario dem in Umbria, Walter Verini. Sul palco il tavolone prima c’è e poi sparisce. Alla fine restano cinque sedie e uno schermo enorme che proietta l’immagine del palco. In quell’istante la sala è già piena. Enzo, un ex elettricista, narnese doc, è lì da mezz’ora. “La vedo male”, allarga le braccia. “Io ho 70 anni, sono stato nel Pci fino alla fine, poi nel Pds, poi nei Ds, e adesso sono qui nel Pd. Ma non bisogna adagiarsi...”. Una signora tutta ingioiellata, la borsa griffata, appena uscita dal parrucchiere per l’occasione, si mostra sicura: “Io sarei stata contraria. Meglio con i cinquestelle che con altri”. Un pronostico? “Non lo so”.

In sala qualcuno si agita: “Ma non dovevamo cominciare alle 11?”. Cinque giri di orologio ed entra in sala Speranza, che si dirige in prima fila. Saluta Verini e guarda l’orologio. Come dire, quando arrivano gli altri? Poi si palesa Zingaretti. Ancora una stretta di mano. Abbracci, baci. E Di Maio? E Conte? Qualcuno sussurra: “È il solito ritardo canonico del premier, se non sono 45 minuti non è contento”.  

Il segretario del Pd scherza: “Facciamo caciara”. Un cronista gli domanda: “Li fate vincere alla grande?”. Il riferimento è al centrodestra. “Invece divisi cosa avremmo fatto?” replica Zingaretti. I minuti passano. Scoccano le 11:40. In fondo alla sala qualcosa si muove. Assembramento di cronisti. Sbuca da una colonna laterale Luigi Di Maio, solito vestito d’ordinanza, cravatta bluette libertà. “Forza Di Maio, sempre uniti, sempre uniti”, si sgola una signora. Il capo politico fa un saluto rapido a Speranza, “Ciao Roberto”. “Ciao Luigi”. Nulla di più. Con il capo politico ci sono Laura Castelli e Giancarlo Cancelleri, due pezzi da novanta del grillismo. Manca solo una persona per la fotografia del mese, del nuovo campo progressista in salsa cinquestelle. Ovvero, Giuseppe Conte.

“Sta arrivando, sta arrivando”, allertano dallo staff. Via Garibaldi è pronta per accogliere l’avvocato del popolo. Il presidente del Consiglio si prende la scena. Ormai c’ha preso gusto. L’abito sartoriale, la pochette questa volta senza le quattro punte, pettinatissimo. Gongola. È il più applaudito quando entra in sala. Una stretta di mano veloce con gli altri tre tenori. E poi lo scatto. La foto di Narni, che resterà impressa nell’anno più folle della politica italiana. Fino a due settimane fa Conte era il premier del Governo più a destra della storia repubblica italiana, oggi è il premier del Governo più a sinistra. I quattro assieme al candidato Vincenzo Bianconi si abbracciano, scattano flash da ogni angolo. Poi “finalmente”, qualcuno sospira, si inizia. In realtà si dovrebbe parlare solo della manovra e del decreto terremoto. Tuttavia i quattro leader non possono non parlare di Umbria e della nuova alleanza. Non solo perché domenica si vota alle regionali, ma anche perché è il primo test elettorale per i giallorossi. 

Basta ascoltarli, però, per scorgere tre sfumature nella foto di Narni. Speranza, ad esempio, scolpisce questa frase: “Da qui parte l’idea di un’alternativa”. Zingaretti è sulla stessa lunghezza d’onda: “È impensabile non essere uniti”. Di Maio, un attimo dopo, tiratissimo in viso, scomoda Tony Blair: “Non è semplicemente un’alternativa, è una terza via”. Mentre Conte resta cauto, nel mezzo: “C’è in atto un esperimento interessante. È una sfida interessante che richiede tempo”.

Il tempo divide i quattro tenori della foto di Narni. Non solo all’arrivo, ma anche nei contenuti: Costretti a salire insieme sul palco per dare un segnale di unità. Ma consapevoli che da domenica notte tutto potrebbe cambiare nuovamente. D’altro canto, per dirla con Sergio, iscritto al Pd di Narni, “speriamo che serva a qualcosa vederli tutti insieme. Anche perché è l’ultima spiaggia per il Pd”. E forse non solo per i democratici.

Dal primo luglio 2020 i turisti dovranno pagare la tassa di ingresso per entrare a Venezia

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Da luglio 2020 i turisti che vorranno visitare il centro storico e le isole della Laguna dovranno pagare, a seconda dei giorni, tre, sei o otto euro. Il via definitivo alla cosiddetta “tassa di sbarco” è arrivato ieri, 25 ottobre, in consiglio comunale con la modifica del regolamento precedentemente approvato. La disposizione è stata introdotta per limitare il turismo in una città che nel 2018 ha avuto 19 milioni di visitatori.

La revisione della normativa, che la Giunta aveva approvato già a ottobre 2018, riguarda soprattutto la riscossione diretta del contributo da parte del Comune (a eccezione delle navi da crociera). Non saranno più i vettori, quindi, a dover gestire l’incasso. Proprio a causa di questa modifica il ticket per i turisti non è entrato in vigore dall’estate del 2019, come invece era stato previsto. 

Il sistema sarà testato nei primi mesi del 2020, in particolare l’acquisto dei “voucher” per le categorie esenti dal pagamento. Seguirà lo sviluppo del sistema di pagamento, soprattutto elettronico (carte di credito, Paypal, bonifico) e la rete di vendita sul territorio metropolitano e nelle province limitrofe, con le apparecchiature adatte.

Infine, la campagna di comunicazione avverrà nei punti d’accesso (aeroporto o stazioni ferroviarie) e con gli operatori di prenotazioni alberghiere. Si passerà poi alla sottoscrizione delle convenzioni con i vettori su informazione alla clientela, modalità di controllo a bordo - che avverrà da parte di operatori del Comune - e infine l’istituzione di un adeguato sistema informativo sulla città e sul turismo sostenibile.

Le tariffe, per i sei mesi di avvio nel 2020, saranno di 3 euro nelle giornate ordinarie, 6 per quelle da bollino rosso, 8 per quelle da bollino nero. Poi, incominceranno a salire. Nel 2021 il ticket arriverà a 6 euro per la tariffa ordinaria, 3 nelle giornate da bollino verde, 8 in quelle rosse e 10 in quelle nere. L’obiettivo è arrivare alla prenotazione completamente elettronica nel 2022.

“Andiamo sempre avanti, dimostrando che, per quel che altri non fanno o non sono in grado di fare, siamo pronti a prenderci le nostre responsabilità”, ha commentato il sindaco Luigi Brugnaro, polemico per le difficoltà incontrate con i vettori di trasporto per la gestione del contributo.

“La nota del Ministero delle Finanze  ci ha detto che possiamo riscuotere noi il contributo. Ci siamo inventati il contributo e adesso lo gestiamo: cosa potevamo fare di più?”, ha aggiunto il primo cittadino. 

 

A Narni Di Maio lancia la sua "terza via". Il gelo con Conte resta e si vede

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 (Photo by Antonio Masiello/Getty Images)

Le braccia di Luigi Di Maio restano immobili. Le mani incrociate. Eccola la distanza. Lo stato d’animo del capo M5s viene tradito dai suoi gesti. Ad abbracciare il premier Giuseppe Conte proprio non ce la fa e neanche a prendere parte con slancio ed entusiasmo a quella che ormai è già passata alla storia come la “foto di Narni”. Perché è qui, in Umbria, che Di Maio, Nicola Zingaretti e Roberto Speranza hanno organizzato in fretta e furia un incontro, sotto lo stesso tetto, a sostegno del candidato comune Vincenzo Bianconi.

Il capo grillino ha voluto con sé anche il presidente del Consiglio, quasi a voler condividere un’eventuale sconfitta e a non essere il solo a metterci la faccia. Tanto è vero che, nonostante il ministro degli Esteri si faccia promotore di un caffè da bere tutti insieme, ostentando unità, è evidente come l’armonia non abiti da queste parti.

Nell’auditorium San Domenico, una cattedrale sconsacrata che risale al 1200 in pieno centro storico, dove è possibile vedere ancora i resti antichi, viene quindi suggellata un’alleanza giallorossa che doverebbe andare al di là del governo nazionale, nonostante i segnali che arrivano dal ministro degli Esteri siano tutt’altro che unitari e i quattro della foto sembrano parlare lingue diverse. Ognuno di loro vede questo patto a modo suo, lo articola in maniera diversa, a tratti contrapposta.

I leader salgono sul palco uno dopo l’altro. Tocca a Di Maio. La voce è bassa, il pathos lascia molto a desiderare. “È stanco”, dicono i suoi quasi a voler giustificare questi toni che non lasciano presagire un trionfo. Il capo pentastellato punta tutto sulla concretezza, sulle misure messe in campo attraverso la manovra e poi invita gli umbri a non farsi utilizzare come “trofeo elettorale”. Incassa i complimenti del sindaco di Narni: “Il tuo è stato il discorso più bello”, gli sussurra all’orecchio. Ma come è noto, quando le elezioni non devono essere considerate un test nazionale, è sempre un modo per mettere le mani avanti in caso di sconfitta.

Infatti la paura di una debacle in casa M5s è forte. “Da soli avremmo straperso, ora l’importante è non perdere male”, osserva un deputato che fa parte della delegazione grillina arrivata qui, in terra non amica, per cercare in ogni modo di recuperare qualche punto alle urne e non staccarsi di troppo dai dem. Fino a poco tempo fa nemici storici, tanto da chiedere le dimissioni dell’ex governatrice Catiuscia Marini rimasta coinvolta nello scandalo della sanità. Ora il paradosso vuole che gli elettori Pd e grillini siano concorrenziali ma nella stessa coalizione. E il timore per il capo politico è di andare ben sotto il 14% delle elezioni Europee.

Di Maio ha l’aria di chi sa quanto sia difficile vincere in Umbria e ancor di più per i 5Stelle. “Uniti, dovete stare uniti”, urla un signore da dietro le transenne. “Chi voto? Eh beh, il Pd ovviamente”, risponde questo elettore. Sull’unità, il capo dei grillini, fra tutti, è quello che si sbilancia di meno. Parla di un “patto civico”, di un laboratorio che non va confuso con “un’alternativa”, piuttosto si tratta di “terza via”, di una posizione politica che non deve essere né di destra né di sinistra.

Di Maio ripesca quindi una categoria politica che ci riporta all’era del blairismo, anche se ai tempi di Anthony Giddens, del politologo che lanciò questa formula rompendo gli schemi classici di destra e sinistra, il capo M5s era bambino. E nonostante il segretario Zingaretti non condivida affatto questa linea e resti in fondo ancorato alla tradizione social democratica che è proprio quella che voleva superare Blair.

Al netto di tutto questo, il premier Giuseppe Conte strappa parecchi applausi. Di Maio meno e appare soffrirne. Ma ormai mancano pochissime ore all’apertura delle urne e “se prevalgono le divisioni, paghiamo un prezzo maggiore”, dice un parlamentare vicino ai vertici. E quindi il capo M5s, a favore di telecamere, si rivolge così al presidente del Consiglio: “Ci concediamo un caffè?”.

Conte nel frattempo è stato travolto da persone a caccia selfie. Il capo grillino cerca Zingaretti: “Nicola dov’è finito?”. Il segretario del Pd si è allontanato. Di Maio ne approfitta per farsi fotografare e ritrarre accanto al premier, sempre nell’ottica dell’unità più da sbandierare che da vivere: “Qui si è creato un senso di comunità non scontato”, dice.

Parlare di alleanza, per Di Maio, è fumo negli occhi. Conte però va oltre il capo grillino: “Qui c’è un esperimento interessante, una coalizione che ha un futuro”, azzarda. Il ministro degli Esteri si tura il naso e continua con il solito mood: “Complimenti per i palleggi di ieri. Bravo, Giuseppe”. E sorride, sempre davanti ai taccuini dei cronisti. Una scena quasi surreale vista la realtà dei rapporti tra i due.

Zuckerberg lancia la novità 'Facebook News': "Il giornalismo è importante per la democrazia"

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Mark Zuckerberg ha annunciato la nascita di Facebook News, un progetto per supportare il giornalismo di qualità: ”È una nuova sezione dedicata alle notizie di alta qualità personalizzata sugli interessi degli utenti”, ha scritto il fondatore di Facebook in un post sulla sua pagina. “Il nostro obiettivo  - sottolinea il CEO di Facebook - è mettere in evidenza le testate che trattano un’ampio spettro di argomenti come scienza, intrattenimento e politica”.

VIDEO - Il promo di “Facebook News” lanciato da Mark Zuckerberg

 

Il lancio di Facebook news è previsto per oggi, 25 ottobre 2019, negli Stati Uniti. “Il giornalismo è importante per la democrazia - ha proseguito Zuckerberg - ma Internet è stato dirompente per il tradizionale modello di business dei giornali, quindi credo che i principali servizi Internet abbiano oggi la responsabilità di collaborare con i media per costruire modelli sostenibili a lungo termine per finanziare questo importante lavoro”. “Spero che il nostro lavoro onori e sostenga il contributo che i giornalisti danno alla nostra società”, ha concluso.

Riformare la giustizia senza ossessioni securitarie e sbornie forcaiole

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I prossimi mesi consegneranno al Governo e alla maggioranza parlamentare un compito importante e, insieme, impegnativo. Dovremo dimostrare di saper offrire un quadro di riforme utili agli italiani, che consentano di lasciarsi alle spalle l’esperienza politica sovranista-populista che in poco più di un anno ha segnato profondamente l’Italia. Lo ha fatto alimentando un clima pericoloso di aggressività e fanatismo nel Paese, oltre che compiendo scelte dannose nel merito delle politiche economiche, migratorie e della giustizia. Superare quella stagione è lo scopo con cui sono nati il Governo in carica e la nuova maggioranza in Parlamento, di cui il Partito democratico fa parte. Ed è innanzitutto a questo obiettivo che ciascuna forza politica di governo è chiamata oggi a contribuire. Perciò mi sembrerebbe francamente stupefacente se il Partito democratico non portasse nel dibattito il suo contributo ideale e programmatico, quello che ha costruito attraverso anni di discussione interna e aperta alla società, e attraverso una lunga esperienza di governo.

Prendiamo il settore della giustizia, uno dei capitoli più rilevanti dell’azione di ciascun esecutivo e che già nelle prossime settimane vedrà questo Governo prendere rilevanti iniziative di intervento. È comprensibile che la nuova maggioranza, in particolare Movimento 5 Stelle e Partito democratico, sia alla ricerca di un nuovo profilo sulle politiche, richiesto dai tanti nodi rimasti aperti nei mesi precedenti, dalla prescrizione alle intercettazioni, dal sovraffollamento nelle carceri tornato a crescere in modo preoccupante fino al tema della durata dei processi.

Ci sono cose da fare subito. Due su tutte: il blocco, o almeno il rinvio, dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni sulla prescrizione previsto dal gennaio 2020 e lo sblocco della nuova disciplina delle intercettazioni, che da più di un anno subisce continui rinvii.

Sulla prescrizione: i dati a disposizione dimostrano il peso limitato che essa ha dopo l’esercizio dell’azione penale. Ma soprattutto, a detta di molti (magistrati, avvocati, professori) c’è un rischio molto concreto che nel sistema attuale il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado rallenti ulteriormente i processi. Non è accettabile che lo Stato da un lato riconosca il proprio fallimento sui tempi con cui esercita l’azione penale e poi lo scarichi tutto sulle spalle dei cittadini, facendo diventare il processo, di fatto, una pena anticipata. Ecco perché, almeno un rinvio, in attesa dell’intervento sul processo penale, sarebbe più che auspicabile, doveroso. Ma credo che tutta la discussione sui singoli temi sarebbe vana se la nuova maggioranza non riuscisse a ribaltare l’immagine che sui temi della giustizia è stata data negli ultimi mesi dal precedente governo.

La cronaca più recente ci offre due spunti da cui sarebbe utile partire. Da un lato, la recentissima sentenza della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo riapre un tema fondamentale: la tutela dei diritti di ogni detenuto in conformità con il fine rieducativo della pena. Senza concedere regali a nessuno, la Corte però mi pare sia intervenuta, dentro una logica opposta a quella degli automatismi, mettendo al centro la valutazione del magistrato di sorveglianza, che ha tutti gli strumenti per una considerazione ponderata sui permessi premio, attenta a tutte le esigenze di sicurezza, compresa quella relativa ai familiari delle vittime. Ecco perché ritengo quel pronunciamento coraggioso e di grande valore. D’altra parte, la fiducia nella magistratura, nella sua autonomia e capacità di valutazione, va ribadita anche su questi temi, dove magari il “vento” popolare soffia in direzione diversa.

L’altro tema è la situazione delle nostre carceri, dove il sovraffollamento ha raggiunto in questi mesi di nuovo livelli di allerta massima dopo anni sotto controllo. Ricordo quello che nel marzo scorso ha sottolineato il Garante nazionale dei detenuti: nell’ultimo anno la popolazione detenuta è cresciuta progressivamente, a fronte di una diminuzione delle persone che sono entrate in carcere. È un dato che fa riflettere, perché indica che l’aumento è dovuto non a maggiori ingressi, ma a minori possibilità di uscita. E allora, dopo che la parte più innovativa della riforma dell’ordinamento penitenziario si è persa per strada, credo sarebbe il momento di riprendere quel filo, riproponendo un modello di detenzione che, sia culturalmente sia dal punto di vista attuativo, metta al centro la proiezione verso il “dopo”. Non significa avvallare norme “svuota-carceri”, ma riconoscere un diritto alla speranza che è di tutti. E significa anche rifiutare che nel luogo in cui si ricostruisce il senso di legalità possano diffondersi situazioni palesemente al di fuori di ogni legalità.

Questi pochi esempi spiegano perché su questo terreno il Partito democratico può e deve giocare una partita da protagonista. Il suo contributo è irrinunciabile per tre ragioni.

Primo, ricostruire i binari di un’idea di giustizia liberale e non punitiva, che ci vede occupare la posizione diametralmente opposta rispetto a chi inneggia al carcere a vita.

Secondo, rendere efficiente e celere la risposta dello Stato alla richiesta di giustizia dei cittadini, difendendo però le garanzie individuali e non affidandosi alla pena come strumento di vendetta nei confronti del colpevole.

Terzo, costruire, con il contributo di molti, la resistenza culturale e politica a una deriva secondo cui il miglior strumento per combattere il nemico sociale di turno è la terribilità delle pene, la repressione violenta e indiscriminata, la sospensione dei diritti degli individui.

Il Partito democratico è nato con una funzione, quella di difendere e rinnovare gli strumenti attraverso cui vivono la democrazia e l’esercizio dei diritti. In tutti i luoghi della società, sui luoghi di lavoro come nelle famiglie, nelle aule dei tribunali come nelle carceri. Oggi più che mai c’è bisogno di un partito che interpreti senza ambiguità questo ruolo. Un partito che sappia difendere i cardini dello stato di diritto contro le spinte di chi strumentalizza le reazioni dell’opinione pubblica, il dolore delle vittime, la paura sociale per accaparrarsi un po’ di consenso in più, incrinando però così i principi della democrazia liberale.

Per questo, la battaglia contro l’ossessione securitaria e la sbornia populista e forcaiola, come quella in nome di una giustizia efficiente e non piegata alle strumentalizzazioni non sono elementi negoziabili. Sono i connotati che fanno del Partito democratico quello che è stato in questi anni: un partito capace di tenere la barra riformista, anche quando si è trovato a dover mediare e trovare soluzioni di compromesso sui temi più spinosi. Ancora di più oggi, in questa alleanza di governo, quelle radici vanno utilizzate per costruire una sintesi avanzata anche sul terreno della giustizia. Quello che, invece, il Partito democratico proprio non può permettersi è di rimanere afono per tenere il megafono ad altri.


Bocciata dal voto alle europee, premiata dalla Raggi: Danzì piazzata al vertice dell'ex Provincia di Roma

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m5s

Criticata per il curriculum “abbellito” sul suo ruolo nell’Anac di Raffaele Cantone, candidata alle elezioni europee nonostante fosse indagata dalla procura di Brindisi, bocciata alle urne nonostante fosse stata prescelta dal leader Luigi Di Maio come capolista per il Nord-ovest. Le recenti macchie nella lunga e proficua carriera professionale non hanno però offuscato la stima di cui gode ai piani alti del Movimento 5 Stelle: Maria Angela Danzi è stata scelta da Virginia Raggi come segretario generale della Città Metropolitana di Roma Capitale (l’ex provincia, detta in soldoni), la carica amministrativa più prestigiosa dell’ente di governo dei 120 Comuni che ne fanno parte. È stata nominata ieri 24 ottobre per un incarico che tra stipendio base e indennità per anzianità, posizione e di risultato ammonta a più di 100mila euro annui. “Un premio niente male dopo l’insuccesso politico e le tante polemiche che il suo nome ci ha portato”, già si vocifera nel M5S. 

È una nomina destinata a far discutere, o meglio a ri-discutere, perché il nome della Danzì è da sempre sinonimo di malumore nel Movimento 5 Stelle. E non solo dopo l’indagine a suo carico promossa dai magistrati di Brindisi per fatti risalenti al suo precedente incarico di sub commissario prefettizio al Comune della città pugliese nel 2017. Tutto il pacchetto delle cinque capolista portato al voto per la ratifica su Rousseau da Di Maio ha coagulato il dissenso dell’area movimentista, e l’esito della votazione sulla piattaforma ne è stata un’ulteriore conferma: solo ventimila voti, 12.909 favorevoli e 7.632 contrari alle decisioni di Di Maio. E Anche Danzì non ha brillato nella consultazione online: i sì sono sati 2553, i no 1446. Insomma, via libera ottenuto ma smorzato.

All’indomani del voto online è arrivata poi la notizia dell’indagine a suo carico: i magistrati pugliesi le hanno contestato l’invasione di terreni pubblici in una inchiesta su un intervento eseguito dall’Autorità di Sistema portuale per delimitare il circuito doganale. Le polemiche sono esplose nel gruppo M5S a Bruxelles, tuttavia - non trattandosi di un reato ascritto alla “black list” del codice etico M5S - la sua candidatura non ha subito contraccolpi. Certo è che l’immagine di “indagata”, seppur per reati veniali, non giova mai se si fa parte di un partito come il Movimento 5 Stelle, a maggior ragione se si viene paracadutati per nomina senza passare dalle parlamentarie. Tant’è che sia Di Maio che Alfonso Bonafede sono dovuti intervenire in sua difesa, definendo “irrilevante” la faccenda giudiziaria in cui Danzì era rimasta invischiata. A sua difesa veniva mostrato il corposo curriculum della dirigente in quota 5 Stelle. Tanti gli incarichi di peso ricoperti nella Pa: tra gli altri, quello di segretario generale al Comune di Genova, di sub commissario prefettizio a Brindisi con numerose deleghe, poi sub commissario prefettizio a Seregno, e ancora di segretario generale alla Provincia di Varese. Un unico neo: una millantata collaborazione, come raccontato da HuffPost, con l’Anac di Raffaele Cantone, in realtà molto esagerata trattandosi di tre incontri a cui partecipò nel 2016 come delegata Anci. 

La bocciatura della sua candidatura alle Europee non è arrivata quindi dai vertici del Movimento ma dal voto popolare: per quanto capolista per la circoscrizione nord-occidentale, la Danzì non è stata eletta al Parlamento Ue, dove Di Maio già la vedeva proiettata su questioni centrali come gli appalti europei. Niente da fare: troppo poche le 14.490 preferenze ricevute, ne sarebbero servite 550 in più. 

Fallita l’elezione all’Europarlamento, il Movimento le ha aperto una nuova porta. Più che aperta, spalancata: la sindaca di Roma l’ha appena nominata segretario generale per la Città metropolitana, con le funzioni anche di direttore generale. Nei giorni scorsi Danzì ha fatto visita all’ente nella sede di Palazzo Valentini, dove si recherà già da domani come segretario provinciale reggente a tempo pieno, e a partire dal prossimo 1° dicembre come segretario generale a tutti gli effetti. 

Le proteste in Iraq sfociano in morti e feriti. Appello alla calma dell'ayatollah Al-Sistani

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Iraq

Baghdad, spari sulla folla. Ma la rivolta sociale in Iraq non si placa. Sarebbero almeno 9 le vittime nel Paese - 5 solo nella capitale irachena e 5 a Nassiriya -, teatro di nuove proteste a cui le forze di sicurezza hanno risposto sparando colpi di avvertimento in aria e usando lacrimogeni e cannoni ad acqua. Pesante anche il bilancio dei feriti, che sfiorano il migliaio. 

Gli scontri sono iniziati alle prime luci dell’alba a Baghdad quando, dopo una pausa di tre settimane, le dimostrazioni l’antigovernative sono riprese.  Erano scoppiate il 1 ottobre scorso per denunciare la corruzione, la disoccupazione e la mancanza di servizi di base, e hanno preso rapidamente una piega tragica quando la polizia è intervenuta per reprimerle con la forza e con l’uso delle armi. Le proteste si sono poi allargate in diverse province meridionali, prevalentemente popolate da sciiti e le autorità hanno allora imposto il coprifuoco e chiuso Internet per giorni nel tentativo di sedare i disordini.

Le proteste, senza precedenti nella loro portata, rischiano di far precipitare l’Iraq in una nuova ciclo di instabilità che potenzialmente potrebbe essere il più pericoloso per un Paese da anni dilaniato dalla serie di conflitti che ha dovuto affrontare e ad appena due anni dall’annuncio della vittoria sullo Stato islamico.

I manifestanti, per lo più giovani, uomini disoccupati, sventolano bandiere irachene e cantano proteste antigovernative, chiedendo lavoro, acqua ed elettricità. “Rivoglio il mio Paese, rivoglio l’Iraq”, grida Ban Soumaydai, 50 anni, dipendente del Ministero dell’Istruzione, che indossa jeans neri, una maglietta bianca e una bandiera irachena con l’hashtag #VogliamounPaese stampato sopra. Tuttavia, dopo che migliaia di manifestanti hanno attraversato il ponte Jumhuriyya che porta alla Zona Verde di Baghdad, sede delle ambasciate e degli uffici governativi, i soldati hanno sparato inizialmente solo con i gas lacrimogeni, poi colpi di avvertimento per respingere i manifestanti che avevano rimosso le barriere di cemento nel tentativo di raggiungere l’ingresso della ‘Green Zone.’ “Baghdad hurra hurra, fasad barra barra” (“Baghdad è libero, la corruzione è fuori”), grida la folla avanzando mentre la polizia antisommossa e soldati armati si mette a difesa del ponte e le ambulanze fanno avanti e indietro per trasportare i feriti negli ospedali.

Il primo ministro Adel Abdul-Mahdi ha cercato di far fronte alle proteste in un discorso alla nazione pronunciato nelle prime ore della mattina, in cui ha promesso un rimpasto nel governo la prossima settimana e si è impegnato per l’approvazione di riforme. Ha detto ai manifestanti che hanno diritto a manifestare pacificamente e ha invitato le forze di sicurezza ala prudenza.  “Le nostre richieste? Vogliamo lavorare, vogliamo lavorare. Se non vogliono trattarci come iracheni, allora ci dicano che non siamo iracheni e troveremo altre nazionalità e migreremo in altri Paesi” ha detto un manifestante a Baghdad.

La frustrazione coinvolge particolarmente i giovani fra i quali in tasso di disoccupazione è elevatissimo (15% contro l’ 8% della media nazionale). In realtà l’Iraq possiede la quarta più grande riserva di petrolio nel mondo ma il 20% delle persone vive con meno di 1.90 dollari al giorno. “Il vero male dell’Iraq oggi è la corruzione le cui conseguenze negative si riversano sulla vita di tutti i giorni della popolazione. La corruzione nega i diritti delle persone, crea povertà, blocca lo sviluppo”, rimarca da Baghdad Nabil Nissan, da 11 anni direttore Caritas Iraq. Tangenti e clientelismo: sono questi i nemici degli iracheni preoccupati anche “dall’instabilità politica, dalla presenza delle milizie paramilitari che hanno combattuto l’Isis, dalla mancanza di sicurezza”.

Dall’ayatollah Ali al-Sistani è arrivato un appello alla calma da Kerbala, città santa degli sciiti. “Riforme reali e un concreto cambiamento nel Paese devono avvenire con metodi pacifici” è il messaggio dell’ayatollah. Nel suo appello esorta quindi sia i manifestanti che le forze di sicurezza a evitare altre violenze. Ai dimostranti si chiede di non attaccare le forze di sicurezza, mentre queste ultime vengono invitate a trattare “gentilmente” gli iracheni che “rivendicano il loro diritto a una vita e a un futuro dignitosi”. Al-Sistani critica poi il rapporto diffuso dalla commissione governativa incaricata di indagare sulla sanguinosa repressione delle proteste di inizio ottobre. La commissione, sostiene, “non ha svelato tutte le verità in modo chiaro all’opinione pubblica”. Una verità inquietante, scomoda.

“Chiunque dia voce al dissenso in Iraq oggi va incontro a interrogatori con una pistola puntata contro, minacce di morte e sparizione forzata”, denuncia Lynn Maalouf, direttrice delle ricerche sul Medio Oriente di Amnesty International. “Le autorità irachene devono immediatamente frenare le forze di sicurezza e smantellare il clima di paura deliberatamente creato per impedire agli iracheni di esercitare pacificamente i loro diritti alle libertà di espressione e di manifestazione“.

Resta lo stato d’emergenza decretato dal governo iracheno, ma resta anche la volontà dei giovani iracheni di non abbandonare la piazza e rivendicare giustizia sociale e la fine della corruzione. Le stesse rivendicazioni dei giovani libanesi e, guardando ad un altro continente, ai giovani cileni e ai loro coetanei boliviani. Una rivolta sociale che è anche generazionale. Fuori e oltre vecchie appartenenze etnico-religiose o fedi ideologiche.

Archiviata l'era Salvini al Viminale. Primo incontro tra Lamorgese e Ong

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Il Viminale archivia la politica “porti chiusi” dell’era Salvini e apre a un nuovo dialogo sul tema dell’immigrazione. La ministra dell’Interno Luciana Lamorgese ha infatti incontrato questa mattina le organizzazioni impegnate nella azioni di salvataggio nel Mediterraneo. Una riunione, che secondo le fonti, viene definita come un “primo passo per l’avvio di una interlocuzione diretta tra le parti”. Le Ong, fanno sapere in una nota, hanno apprezzato la riapertura di un dialogo e auspicano che sia il punto di partenza perché tutti gli attori coinvolti tornino a collaborare in modo efficace per la salvaguardia della vita umana in mare.

I rappresentanti di Medici Senza Frontiere, Mediterranea, Open Arms, Pilotes Volontaires, Sea Eye, Sea Watch e Sos Mediterranee hanno ribadito i punti fondamentali per ripristinare un sistema di soccorso efficace, in grado di garantire il rispetto della vita e dei diritti umani, contenendo morti e sofferenze: rimettere al centro l’obbligo del soccorso di cui gli stati hanno la principale responsabilità, nel rispetto dei trattati internazionali, evitando pericolosi ritardi, omissioni di intervento e mancanza di comunicazione sulle imbarcazioni in difficoltà.

Inoltre le organizzazioni hanno sottolineato la necessità di porre fine alle intercettazioni da parte della guardia costiera libica, che riporta le persone in Libia in violazione del diritto internazionale. L’obiettivo è quello di definire, con il coinvolgimento europeo, un sistema preordinato di sbarco in un vicino porto sicuro, evitando ai naufraghi giorni di attese in condizioni fisiche e psicologiche di grande vulnerabilità, come accade anche oggi per la nave Ocean Viking bloccata in mare da cinque giorni con 104 persone a bordo. 

Padre di un bimbo piccolo e aiuto pasticcere. Chi è Valerio Del Grosso, uno dei due fermati per il caso Sacchi

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Valerio Del Grosso

“Una famiglia perbene, tutte brave persone. La mamma, Giovanna, fa la casalinga e ha altri tre figli”. A raccontarlo è la moglie del titolare della pasticceria a Casal Monastero, dove lavorava come aiuto pasticcere Valerio Del Grosso, uno dei due fermati per l’omicidio di Luca Sacchi. Il ragazzo che, secondo la ricostruzione degli inquirenti, avrebbe esploso il colpo mortale.

“Ieri lui è venuto a lavoro come ogni giorno poi verso ora di pranzo ha detto di non sentirsi bene ed è andato via”, continua. “Questa mattina qui è venuto il papà, ci ha detto che non sarebbe venuto e ci ha spiegato cosa era successo - aggiunge - Siamo sotto choc”.

Del Grosso è padre di un bambino di pochi mesi, secondo quanto riferisce una vicina di casa. ”È una famiglia squisita - dice la donna - ci conosciamo da una vita. I nostri figli giocavano insieme quando erano piccoli. Sono sconvolta. Valerio abitava qui con i genitori, la sorella, la compagna e il suo bimbo splendido che è nato 5/6 mesi fa”.

 

 

Si terrà domani l’interrogatorio di convalida del fermo per Del Grosso e Paolo Pirino, i due 21enni fermati per l’omicidio di Sacchi, il 24enne ucciso con un colpo di pistola alla testa mentre si trovava con la sua fidanzata. I due giovani, dopo essere stati interrogati per ore e dopo il fermo disposto dal pm, sono stati trasferiti in carcere a Regina Coeli dove domani verranno interrogati dal gip.

“Il mio assistito si è avvalso della facoltà di non rispondere ma intende chiarire, appena possibile, la sua posizione. È molto provato da una tragedia che colpisce più persone e famiglie, in primis quella di Luca Sacchi”. A parlare è l’avvocato Alessandro Marcucci, legale difensore di Del Grosso, il giovane di 21 anni accusato di avere materialmente sparato a Sacchi.

“Ho avuto modo di parlare con lui per pochi minuti questa notte - spiega il legale - questa è una tragedia che colpisce tante persone, familiari, amici. Anche la famiglia di Valerio, composta da persone oneste. Anche il mio cliente, da quanto so, non ha precedenti penali gravi. Lavorava come pasticcere. Questa vicenda rappresenta un fulmine a ciel sereno”.

Ex Ilva, il governo prende tempo e aspetta la prossima mossa di Mittal sugli esuberi

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 (Photo by Tiziana FABI / AFP) (Photo credit should read TIZIANA FABI/AFP/Getty Images)

L’unico dato certo nella delicata e complicata vicenda del futuro dello stabilimento ex Ilva di Taranto è che ci vorrà ancora del tempo. Tempo per capire se Arcelor Mittal alzerà la posta in gioco, abbandonando l’impianto dopo lo stop all’immunità penale o decidendo di restare con un pesante piano in termini di esuberi. E tempo per conoscere come si muoverà il governo, dopo che i 5 stelle hanno fermato lo scudo per la nuova proprietà: fino a che punto può essere mantenuta la linea dura se all’orizzonte, bene che vada, c’è l’ipotesi di 5mila esuberi? La soluzione è rinviata a metà novembre, quando al ministero dello Sviluppo economico si siederanno intorno a un tavolo i rappresentanti dell’esecutivo, i vertici dell’azienda e i sindacati. 

Intorno allo stabilimento tarantino regna ancora la totale incertezza. Il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli, insieme al collega per il Sud Giuseppe Provenzano, ha incontrato i sindacati al Mise. Un punto certo nel governo c’è e cioè che la produzione siderurgica a Taranto deve continuare. Posizione tutt’altro che banale viste le spinte che arrivano da una parte dei grillini. Appena ieri Mario Turco, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con la delega alla programmazione economica e agli investimenti, non di certo una seconda linea, ha detto che “Taranto può e deve pensare al suo futuro senza vederlo legato allo stabilimento dell’ex Ilva”. Il Pd subito pronto a ribattere che gli impegni presi vanno rispettati. Il tavolo di oggi ha partorito quantomeno un punto di contatto tra i due azionisti di governo. La linea l’ha anticipata Provenzano in una doppia intervista a Repubblica e al Corriere della Sera: “Nel governo c’è piena condivisione della natura strategica dell’ex Ilva, altro che preparare la chiusura”. Ai sindacati, sia Provenzano che Patuanelli hanno ribadito il concetto, relegando all’angolo la posizione di Turco. 

Se la volontà del governo è quella di far sì che a Taranto si continui a produrre acciaio, la strategia di Arcelor Mittal è più nascosta dopo lo stop all’immunità. I sindacati temono cinquemila esuberi o addirittura la possibilità che i proprietari vadano via proprio a causa della questione dell’immunità. La questione occupazionale si impone come primo problema da risolvere per tutti gli attori coinvolti. Un’emorragia di posti di lavoro sarebbe un prezzo altissimo da pagare per i sindacati e anche per il governo. Ma il punto di caduta potrebbe essere proprio questo: Mittal potrebbe restare, ridimensionando però gli impegni in termini di produzione e di posti di lavoro necessari per mandare avanti lo stabilimento. 

La questione dello scudo è l’elemento che muove la partita a scacchi tra il governo e l’azienda. Ma la partita, che si allunga necessariamente perché ad oggi le posizioni sono inconciliabili, si surriscalda proprio sulla questione occupazionale. Non è un caso che il governo stia valutando la possibilità di emanare una norma o una legge per ripristinare una sorta di scudo, che valga però per tutti e non sia invece una tutela ad hoc per Mittal. Il punto di partenza è l’articolo 51 del codice penale, dove è stabilito che chiunque agisce nell’adempimento di un dovere, come per il piano ambientale, non è punibile, tantomeno per colpe di altri e errori commessi in precedenza. A Mittal potrebbe bastare. Non al futuro dello stabilimento tarantino. Perché la questione dei posti di lavoro impone un punto di sintesi che ancora non c’è. A metà novembre sarà il convitato di pietro al tavolo convocato al Mise. 

 

Giorgetti già "vede" Draghi al posto di Conte

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Draghi/Conte

La notizia di Mario Draghi alla presidenza del Consiglio al posto di Giuseppe Conte ”è verosimile per chi gira gli ambienti politici romani, tutti vedono il Governo e in particolare il presidente del Consiglio molto in difficoltà, con reazioni estemporanee, non in linea con il profilo che lui vuole darsi”. Lo afferma il vicesegretario della Lega Giancarlo Giorgetti all’evento “Liguria 2020-2025: la forza del territorio” organizzato dalla Lega a Sestri Levante in vista delle Regionali della prossima primavera.

“Draghi è disoccupato e non penso che chieda il reddito di cittadinanza, può darsi che sia disponibile e che qualcuno lo chiami a fare un ruolo politico.
Chi ha deciso di mettere Conte alla presidenza del Consiglio potrebbe anche tranquillamente decidere di mettere al suo posto Draghi”, ha aggiunto Giorgetti.

VIDEO - Draghi: “Io Presidente della Repubblica? Chiedete a ma moglie”

"Mamma e papà, sto morendo. Non riesco a respirare. Vi amo tanto. Mi dispiace"

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“Sono veramente molto, molto dispiaciuta, mamma e papà, il mio viaggio verso una terra straniera è fallito. Sto morendo. Non riesco a respirare. Vi amo tanto. Mi dispiace, mamma”. Sono queste le ultime strazianti parole di una delle 39 vittime, immigrati clandestini, ritrovate dentro un tir in un porto vicino a Londra. 

A scrivere queste parole in un sms, come riporta la Bbc, è stata Pam Thi Tra My,  una vietnamita di 26 anni. I familiari hanno ricevuto il messaggio due ore prima che il container arrivasse al terminal di Purfleet a bordo di una nave imbarcata da Zeebrugge, in Belgio.

Il fratello racconta alla Bbc: “Aveva pagato 30 mila sterline ai trafficanti per farsi portare in Gran Bretagna”. E aggiunge: “Era partita dal Vietnam il 3 ottobre, prima volando in Cina, dove è rimasta un paio di giorni, quindi da lì fino alla Francia. Ci ha chiamati ogni volta che ha raggiunto una nuova destinazione. Ha compiuto il primo tentativo di attraversare la Manica il 19 ottobre, non sappiamo da quale porto, ma è stata scoperta e rimandata indietro. Ci ha detto di non chiamarla, perché i trafficanti non le permettevano di ricevere telefonate”.

VIDEO - Le riprese aeree del tir che viaggiava con 39 cadaveri a bordo


Dalla droga all'arma. I tre punti ancora avvolti nel mistero nell'omicidio di Luca Sacchi

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A distanza di qualche ora dall’arresto di Valerio De Grosso e Paolo Pirino, 21 anni entrambi, restano ancora alcuni punti da chiarire nella vicenda che ha portato alla morte di Luca Sacchi, personal trainer di 24 anni, freddato davanti alla sua fidanzata Anastasia nei pressi del John Cabot, pub in zona Appio, nella Capitale.

1) Luca e Anastasia erano usciti per cercare di comprare della droga? Oppure si è trattato di una semplice rapina? Secondo le indagini dei carabinieri del Nucleo Investigativo e dei poliziotti della Squadra Mobile ci sarebbe un legame tra la ricerca della sostanza stupefacente e la morte di Luca che insieme alla ragazza avrebbe cercato di procurarsi hashish da Del Grosso e Pirino. Una tesi, quella dell’accusa, respinta da Anastasia e dal legale della famiglia Sacchi. Per entrambi Luca era uno sportivo e non faceva uso di droghe. Peraltro, non risulta che nel momento della cattura dei due aggressori gli inquirenti abbiano trovato droga, e le ipotesi di reato per le quali i due sono stati sottoposti a fermo sono omicidio, rapina, detenzione e porto abusivo di armi, anche qui senza citare detenzione o spaccio di stupefacenti.

VIDEO - L’avvocato della famiglia Sacchi: “Luca non faceva uso di droghe”

 

2) Quanti soldi c’erano nello zainetto di Anastasia? Questo è un altro punto controverso nella vicenda. La 25enne ha riferito che all’interno c’erano poche decine di euro. Ma secondo chi indaga non è così. Sono infatti in corso verifiche sul punto. Secondo gli investigatori all’interno dello zainetto c’erano soldi per acquistare non la singola dose di droga, ma sicuramente di più. Per chiarire meglio la situazione anche la giovane potrebbe essere riascoltata dagli inquirenti.

VIDEO - Gli investigatori: “Fermati due giovani. Indizi importanti a loro carico”

 

3) Valerio Del Grosso e Paolo Pirino quando sono andati contro Luca e la fidanzata avevano fin da subito la pistola con loro? E ora l’arma dove è stata occultata? Inizialmente, secondo quanto si apprende, i due avevano lasciato la pistola nell’auto, una Smart bianca a quattro posti, in un secondo momento dopo aver visto il quantitativo di denaro nello zaino di Anastasia sarebbero tornati alla macchina fingendo di prendere lo stupefacente e presentandosi con una mazza da baseball, utilizzata per colpire la giovane, e una pistola che sarà utilizzata invece per uccidere Luca. La mazza è stata poi ritrovata e sequestrata. Della pistola ancora non c’è traccia.

VIDEO - In testimone: ″Hanno sparato un solo colpo e sono fuggiti″⁣

La macchina della verità umbra

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NARNI, ITALY - OCTOBER 25: Italian Minister of Health Roberto Speranza(L), General Secretary of Democratic Party (PD) Nicola Zingaretti, Italian Minister of Foreign Affairs Luigi Di Maio and Italian Prime Minister Giuseppe Conte(R) attend the press conference to present the budget maneuver, on October 25, 2019 in Narni, Italy. (Photo by Antonio Masiello/Getty Images)

A voler essere un po’ pedanti, verrebbe da dire che, se questo doveva essere l’esito, inevitabile secondo la logica, tanto valeva scattare la foto di Narni qualche settimana prima, e non all’ultimo momento. Magari conducendo una campagna più unitaria e appassionata, sin dall’inizio: se c’è un candidato comune e una sfida comune, logica dice che non hanno senso campagne separate. Anche perché l’impatto del risultato sarà comune, nel senso che riguarderà l’alleanza nel suo complesso, al suo primo test nel paese reale. C’è poco da fare, ogni voto è sempre un voto politico, come si insegnava ai tempi in cui la politica era razionale. In fondo è quel che con grande generosità ha sostenuto, sin dall’inizio, il segretario del Pd cresciuto in un partito (molto serio) in cui si discuteva per giorni anche della sconfitta a Castellammare di Stabia. E cioè che “le battaglie giuste si combattono tutte”, anche quando è complicato vincerle e il leader, se sono tali, non possono sottrarsi. Gli altri, forse per un deficit formativo, si sono svegliati tardi, evidentemente solo dopo che le ultime rilevazioni hanno suggerito di andare a caccia di indecisi, chissà.

Sia come sia, la foto c’è, dopo che il premier, nei giorni scorsi, aveva banalizzato l’appuntamento elettorale paragonando l’Umbria, per numero di abitanti, alla provincia di Lecce. Un modo, non particolarmente felice, per sostenere che l’esito del voto sarebbe stato irrilevante. E non è banale il fatto che quella foto sia, in assoluto, la prima immagine con tutti i leader (tranne Renzi, ma su questo torneremo), dalla nascita del governo gialloverde, finora accompagnata da una certa timidezza nel mostrarsi assieme rispetto alla disinibita e ostentata complicità tra Salvini e Di Maio, nella precedente esperienza.

Ecco, l’evento di Narni è una novità politica, anche se vissuta con accenti diversi, parole diverse, sorrisi e posture diverse: con grande slancio da parte di Nicola Zingaretti e Roberto Speranza, più convinti della necessità di trasformare questa alleanza in una compiuta coalizione politica, con malcelato distacco da parte di Luigi Di Maio, piuttosto imbronciato nei panni del “frenatore” di questa prospettiva e freddino con Conte, con compiacimento dal premier perché pensa che la costruzione della sua leadership passa per la “politicizzazione” dell’alleanza e non più per il suo essere “terzo”. E, nell’evento odierno, non è secondaria neanche la coesione mostrata sulla manovra, soprattutto dopo spettacolo dell’ultima settimana, con una approvazione “salvo intese” e una riscrittura dopo pochi giorni a causa della tensione tutta interna al Movimento, tra il capo politico e l’inquilino di palazzo Chigi. Se alle parole seguiranno comportamenti conseguenti, dovremo aspettarci, in Parlamento, un percorso più lineare rispetto a quello vissuto finora.

Proprio nel timing dell’ultimo momento e nella sua estemporaneità c’è tuttavia una buona dose d’azzardo. Parliamoci chiaro: più che il “chi”, nelle elezioni di domenica, conterà il “come” perché la vittoria di Salvini sembra essere piuttosto scontata. E non solo per il modo in cui si è andati al voto, dopo che la giunta del Pd è stata travolta dagli scandali. Ma per un trend di lungo periodo. Già nel 2014 quando la Lega non era a due cifre, il centrodestra perse per soli 13mila voti, poi negli anni successivi ha conquistato tutte le roccaforti urbane, da Perugia a Terni, da Orvieto a Todi e adesso governa due terzi di comuni locali. Una vittoria della coalizione Pd-M5s sarebbe, in questo quadro, pressoché un miracolo. Il rischio è che l’esito elettorale possa sporcare l’immagine unitaria costruita l’ultimo giorno o, peggio, di colpirlo al cuore. Dipende dal “come”.

C’è un numero che, domenica notte, testerà la tenuta dell’esperimento, ed è “quota 39”, ovvero la somma dei voti raccolti alle Europee dal Pd (25 per cento) e dal Movimento (14 per cento, ben lontano dai fasti delle politiche). È in questa macchina della verità che ciò che oggi appare come un retropensiero malizioso diventerà dinamica politica. La non presenza di Renzi (o dei suoi) a Narni è un modo per differenziarsi dalla sconfitta e nella sconfitta, separando la collaborazione di governo dall’alleanza strategica Pd-Cinque stelle, come ha spiegato alla Leopolda. E c’è il rischio che un esito non entusiasmante del Movimento possa dar fiato alle trombe di coloro che questo abbraccio col Pd l’hanno subito e vogliono un ruolo più autonomo, secondo uno schema speculare a quello di Renzi per cui un conto è il governo altro è la costruzione di una alleanza politica. Non è un dettaglio che l’accelerazione, proprio all’ultimo giorno, per scattare una foto tutti assieme sia arrivata proprio da Luigi Di Maio, il più riottoso. È lui che ha fatto in modo che Conte ci mettesse la faccia, dopo esserne stato alla larga. Inevitabilmente anche il premier starà dentro il risultato, non “terzo” rispetto alla sconfitta. Ecco, il rischio è questo.

 

 
 
 
 
 

Salvini e Berlusconi, chiusure separate. Entrambi a Terni ma in posti diversi

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Uniti sulla corsa all’Umbria ma separati nella stessa città. Così Salvini e Berlusconi affrontano l’ultimo comizio prima del voto regionale. I due leader saranno su palchi diversi a Terni: il leghista ha scelto Largo Volfano Frankl, mentre il forzista è sul palco del teatro Politeama. 

Stessa città, ma diverso luogo e differente orario per i due leader. Berlusconi ha iniziato il suo comizio alle 19:30 circa, in cui ribadisce l’unione d’intenti del centro-destra per supportare la candidatura di Tesei in Umbria: “Abbiamo scelto una candidata su cui non c’è stata alcuna esitazione da parte nostra. Abbiamo detto immediatamente sì”. Il Presidente di Forza Italia, come i suoi colleghi di coalizione, sembra sicuro sull’esito delle urne: “Dopo mezzo secolo cadrà il fortino rosso”.

Intanto Matteo Salvini, in attesa del suo “rush finale”, è talmente sicuro della vittoria che, addirittura, parla già della prossima giunta, chiedendo per la Lega il posto di assessore all’Agricoltura. Altrettanto certa del trionfo di Donatella Tesei è Giorgia Meloni: “Sono molto contenta che questa mattina in Umbria sia arrivato mezzo governo italiano per mettere la faccia sulla sconfitta che subiranno domenica”, commenta la leader di Fratelli d’Italia.

La madre del killer di Luca Sacchi: "Mio figlio meglio in cella che a spacciare"

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Del Grosso

Valerio Del Grosso ha confessato all’amico e alla fidanzata di aver sparato a Luca Sacchi. L’amico lo ha detto al fratello, il fratello alla madre, Giovanna Proietti, e la madre alla polizia: “Mio figlio ha fatto una cazzata”, le parole della donna, “meglio in cella che tra i pusher. È meglio saperlo nelle vostre mani che in quelle di spacciatori, delinquenti e criminali”.

Non lo vedeva da due giorni. Valerio non era tornato a dormire nella villetta a due piani in cui è cresciuto e vive con mamma e papà Gianni, con la sorellina 14enne, con l’altro fratello Simone e con la cognata Azzurra. Dopo il delitto, Del Grosso non era tornato a casa ma si era presentato al lavoro, nella pasticceria all’angolo. È aiuto pasticcere. Lavora mezza giornata, poi va via, non si sente bene, non ce la fa. È la fidanzata invece a rivelare alla polizia dove potevano trovare Valerio: “Lo trovate nella camera 103” del Cervara Hotel Park, dove si era rifugiato. La polizia ha dovuto sfondare la porta, secondo la ricostruzione di un dipendente dell’hotel.

“Volevo spaventarlo, non volevo ucciderlo” dirà Valerio agli agenti che lo catturano per aver ucciso il 24enne con un colpo secco di P38 alla nuca. Con lui c’era Paolo Pirino, anche lui portato in carcere. Davanti al pm Nadia Plastina, invece, Valerio si avvale della facoltà di non rispondere. Così anche in sede di convalida davanti al gip: a entrambi vengono contestati i reati di concorso in omicidio, rapina aggravata e detenzione e porto abusivo di arma comune da sparo.

“Ha chiesto scusa per quello che è successo. Non voleva di uccidere nessuno”, ha detto l’avvocato Alessandro Marcucci, difensore di Del Grosso lasciando Regina Coeli dopo interrogatorio di convalida del fermo. “Si è avvalso della facoltà di non rispondere e rimandiamo a un’altra occasione il confronto con i magistrati. È molto provato e dispiaciuto per quello che è successo”, ha concluso il penalista.

 

 

L’omicidio, secondo quanto emerge, sarebbe seguito a un tentativo di rapina legato ad una compravendita di droga, che Anastasia, la fidanzata di Sacchi, aveva chiesto ai due di procurarle. Ma la quantità di soldi che la ragazza aveva nello zaino ha spinto i due a scipparla. Poi il tentativo di difesa da parte di Luca finito nel sangue. Un teste, citato nel decreto di fermo, una sorta di ‘mediatore’ di Del Grosso dice alla polizia che la donna aveva nello zaino “soldi divisi in due mazzetti da 20 e da 50 euro”. E racconta come, nelle fasi precedenti il delitto, si sia recato alla Caffarella con altre due persone “alle 21:30 del 23 ottobre incontrandone una terza, già a lui nota, al quale si presentava come inviato di Valerio”. Doveva verificare, per conto di Del Grosso “se persone in zona Tuscolana avessero il denaro per acquistare come convenuto merce”. Insomma dalle testimonianze emerge che i due pusher avevano una ‘rete’, almeno tre emissari, ed erano organizzati. Emerge la possibilità che fossero stati ‘contattati’ per l’acquisto di droga. Ed emerge che i fermati avevano complici tali, secondo la procura, da poter consentire loro una fuga. 

 

 

Maldini contro Berlusconi: "La sua tendenza a fare spesso battute lo rende inelegante"

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Maldini/Berlusconi

Paolo Maldini contro Silvio Berlusconi è un inedito assoluto. Inevitabile quindi che la premessa sia un elogio, ma il direttore tecnico del Milan non ha gradito le dichiarazioni dell’ex presidente rossonero. Berlusconi aveva criticato l’attuale amministratore delegato rossonero, Ivan Gazidis, il quale aveva detto che il Fondo Elliott ha salvato il Milan dalla Serie D, e quindi dal fallimento, dicendo che certe frasi “vanno dette al bagno”. 

“Silvio Berlusconi è stato un grandissimo presidente, il migliore che potessi avere - dichiara Paolo Maldini a Sky - È una persona a cui voglio bene. La sua tendenza a fare spesso le battute lo rende inelegante, ma l’affetto per lui rimarrà sempre immutato”.

Maldini assicura di voler vincere presto con il Milan. “La mia storia è pesante: la mia presenza e quella di Boban testimoniano che non vogliamo aspettare 10 o 15 anni per tornare a quei livelli. Siamo una garanzia. Se nell’idea della proprietà c’è la volontà di tornare competitivi tra 10-15 anni e fare dodici anni da squadra di media classifica, non saremo più a capo della direzione sportiva”. Maldini sottolinea che “forse una cosa su cui non siamo stati bravi noi e non è stata brava la proprietà è nel parlare e dire gli obiettivi, e nel dire quello che abbiamo ereditato. Abbiamo ereditato una squadra con un passivo di 125 milioni, abbiamo fatto un mercato a zero l’anno scorso, ci sono tante cose che non sono state dette, siamo stati banditi dall’Europa anche per le gestioni precedenti, abbiamo ricevuto multe l’anno scorso di 12 milioni, per le gestioni precedenti. Alle critiche, sinceramente, io sono abituato, sono convinto di quello che sto facendo, so che lo sto facendo al mio massimo. Poi, come tutti, la mia permanenza o no sarà figlia dei risultati”.

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